L’impatto inatteso di “Food for profit”. Intervista all’autrice Giulia Innocenzi

Il documentario Food for profit, che mostra l’atrocità degli allevamenti intensivi e il filo che lega l’industria della carne, le lobby e il potere politico, sta avendo un insperato successo di pubblico e critica grazie a proiezioni mirate e a un’organizzazione capillare. Ne parliamo con l'autrice Giulia Innocenzi, giornalista d'inchiesta, conduttrice televisiva e regista.

Giulia Innocenzi, il suo film “Food for profit” sta scuotendo l’Italia. Quali sono le trappole in cui cadiamo al supermercato?
La trappola numero uno è quella del Made in Italy e cioè la convinzione che tutto ciò che è prodotto da noi sia sicuro e di qualità. Purtroppo non è così: il 90% della carne, del latte, del formaggio prodotti in Italia viene dagli allevamenti intensivi ovvero da luoghi insalubri nei quali gli animali vengono letteralmente torturati. Questi luoghi inquinano l’ambiente e costituiscono un pericolo per la salute umana: a causa di un uso massiccio degli antibiotici negli allevamenti, nel 2050 sono previsti dieci milioni di morti l’anno a causa dell’antibiotico-resistenza. Ma penso anche al pericolo di future pandemie, come spiega David Quammen nel documentario. Purtroppo però i grandi gruppi industriali si sono sempre opposti all’idea che sull’etichetta venga specificato il modo in cui ha vissuto l’animale.

C’è da fidarsi quando leggiamo la classificazione di alcuni prodotti, ad esempio delle uova? Quando ci dicono, ad esempio, che sono biologiche, che le galline sono allevate a terra, senza l’uso di antibiotici?
Le uova in effetti sono l’unico prodotto su cui c’è un’etichetta trasparente, però “allevate a terra” significa che l’animale è chiuso nel capannone dell’allevamento intensivo e non nelle gabbie: poco cambia per la povera gallina.  Sul biologico, poi, c’è un grandissimo problema: è il “controllato” che paga il suo stesso controllore, cioè gli enti di certificazione biologica sono pagati dalle aziende che loro stessi devono esaminare. C’è, quindi, un grande conflitto di interessi perché la formula potrebbe essere più o meno questa: se tu mi controlli troppo, io ti tolgo l’incarico e lo assegno a qualcun altro con maglie più larghe.

Una delle cose che colpisce di più in Food for profit è osservare come alcune istituzioni europee app…

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.

Il lavoro invisibile delle donne

Se le condizioni del lavoro sono complessivamente peggiorate per tutti negli ultimi decenni in Italia, il lavoro delle donne è stato nettamente il più penalizzato. Costrette dalla maternità (effettiva o potenziale) a scelte sacrificate e di povertà, molte percepiscono un reddito inferiore rispetto a quello maschile, sono precarie, e spesso invisibili.