“Israelism”, la rivolta dei giovani ebrei negli USA contro l’indottrinamento sionista

Il film di Sam Eilertsen ed Erin Axelman "Israelism", proiettato recentemente in Italia, racconta il processo di presa di coscienza di una intera generazione di ebrei americani cresciuti fin da bambini in un ambiente di ferreo indottrinamento al culto di Israele e alla propaganda sionista. Finché molti di loro, confrontandosi con la realtà dei palestinesi attraverso viaggi sul posto o nei campus universitari, non capiscono di essere stati spinti ad annullare la loro ebraicità nella fede cieca in un progetto etnonazionalista.

Negli Stati Uniti vivono circa sette milioni e mezzo di persone di origine ebraica, quasi un milione in più di quante ne vivono in Israele. Una parte non trascurabile della comunità è composta da ebrei americani antisionisti, che si battono contro l’occupazione illegale della Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme Est da parte dell’esercito israeliano. Molti di loro sono giovani che maturano questa posizione negli anni dell’Università. Israelism, il film dei registi ebrei americani Erin Axelman e Sam Eilertsen, uscito nel 2023 dopo un lavoro di ricerca durato sette anni, racconta questo processo di presa di coscienza. La voce narrante è quella di Simone Zimmerman, cofondatrice di IfNotNow, un’organizzazione di ebrei americani che si batte per la giustizia in Israele e Palestina. Zimmermann e le altre persone intervistate nel film parlano della conquista e del raggiungimento di una posizione – politica, e in una certa misura anche identitaria – contraria allo Stato di Israele come di un doloroso processo di decostruzione e consapevolezza rispetto alla storia che di Israele, da bambini e adolescenti, non gli era stata mai raccontata: la storia dell’oppressione dei palestinesi. Un processo in cui trova posto la rabbia, per il conflitto violento fra il trauma di persecuzione che il popolo ebraico porta sulle sue spalle, e le atrocità, i crimini e le ingiustizie che lo Stato di Israele perpetra a danno del popolo palestinese a nome di tutti gli ebrei, anche di coloro che non si riconoscono nel progetto sionista.
Abbiamo intervistato i due registi in occasione della prima proiezione del film in Italia, al cinema Troisi di Roma.

Cosa cambiereste del film dopo gli eventi del 7 ottobre e la devastazione di Gaza?

Erin Axelman: In un certo senso, penso che ancora per un bel po’ di tempo non potremo sapere cosa cambieremmo, perché è vero che sappiamo cos’è successo il 7 ottobre e nei mesi a seguire, ma è anche vero che la situazione può ancora peggiorare. Quindi, fino a che non ci sarà almeno un lungo cessate il fuoco, non penso saremo in grado di dire come avremmo inserito questi eventi nei nostri ragionamenti.

Sam Eilertsen: Sicuramente, tutte le dinamiche che raccontiamo nel film hanno subito un’ulteriore accelerazione dopo il 7 ottobre. Nella comunità ebraica degli Stati Uniti le divisioni e le fratture interne sono ancora più profonde; sempre più persone vogliono il cessate il fuoco e sono solidali con il popolo palestinese. Certo ci vorrà molto tempo, molte persone sono rimaste traumatizzate dagli eventi del 7 ottobre e da lì in poi hanno assunto una posizione molto difensiva. Alcuni però adesso la stanno superando, anche a causa della reazione di Israele. I tentativi da parte delle comunità ebraiche mainstream e conservatrici di demonizzare persone come noi e come Simone Zimmerman, che criticano l’occupazione israeliana, si sono intensificati. Continuano a dire che gli ebrei antisionisti non sono veri ebrei e cose simili; dichiarazioni che sicuramente avremmo inserito nel film. Già da molto prima del 7 ottobre avevo notato la retorica genocidaria da parte della destra israeliana; quindi, ero molto preoccupato di quello che sarebbe accaduto a Gaza. E quello che vediamo oggi era, purtroppo, esattamente quello che ci aspettavamo.

Quando avete iniziato a pensare al film avevate già attraversato la trasformazione che raccontate verso una posizione antisionista?

Axelman: Il film racconta le nostre storie personali, che sono molto simili alle storie di molti dei nostri amici passati attraverso la stessa transizione: difendevamo Israele a spada tratta, eravamo innamorati di Israele, per come la nostra comunità ce lo aveva raccontato. Quando siamo entrati in contatto con la versione palestinese della storia che conoscevamo, è cominciato per noi un processo di disillusione che ci ha spezzato il cuore, non appena abbiamo incominciato a capire che la storia di Israele è molto simile alla storia degli Stati Uniti e alla storia di altri Paesi, fondata sull’espulsione e l’annichilimento di intere popolazioni. Prima di fare il film avevamo già vissuto questo cambiamento di posizione e volevamo raccontarlo nel dettaglio. Sicuramente in questi anni ho approfondito meglio le multiple stratificazioni di tragedia che caratterizzano questo percorso e quello che c’è dietro. Ho compreso meglio il processo attraverso cui un popolo oppresso come quello ebraico si è ridotto alla condizione di oppressore nei confronti di un altro popolo. Questo è profondamente tragico e sento l’ingiustizia che caratterizza entrambe le parti.

Eilertsen: Nessuno di noi due è cresciuto nel tipo di comunità in cui è cresciuta Simone Zimmerman, e nessuno dei due partecipava alle day school e ai campi estivi che si vedono nel film, ma abbiamo assorbito messaggi molto simili. E quando persone come noi arrivavano in Università, la nostra missione nei campus era quella di difendere Israele. Il mio compagno di stanza indossava quasi tutti i giorni la maglietta della divisa dell’IDF (Israeli Defence Forces) in Università. Quelli che entravano al college con questa impostazione, tendenzialmente ne uscivano pro Palestina, dopo aver interagito con studenti e professori palestinesi o dopo aver conosciuto altri punto di vista, per esempio quelli di israeliani come gli attivisti di Breaking the Silence parlare apertamente di occupazione o apartheid . Queste esperienze hanno reso più facile anche a me parlare apertamente di Israele in maniera critica. È una traiettoria molto comune tra gli ebrei americani, che in pochi anni compiono una trasformazione radicale.

Vedete il processo di presa di coscienza politica degli ebrei antisionisti che raccontate nel film come una riappropriazione della vostra cultura ebraica? Specialmente rispetto al fatto che Israele si arroga il diritto di determinare chi è ebreo e chi non lo è.

Eilertsen: Questa è esattamente la questione che ci ha portati a intitolare il film Israelism. Nella comunità ebraica americana Israele è dipinto come uno dei pilastri fondanti della nostra identità, dell’essere ebrei, e si insiste su come per tutelare la nostra identità sia fondamentale supportare Israele. Il culto di Israele è stato adottato come modo per far perdurare l’identità ebraica in un’epoca di laicizzazione e assimilazione dell’identità ebraica in quelle europee e in quella americana. Sempre meno persone si identificavano come ebree; i sionisti si sono dunque posti questa domanda: “Come invertire la rotta verso l’abbandono dell’identità ebraica, per le persone non m…

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