Bitmagic. La politica delle criptovalute

Dal 2009, quando fu creata la prima moneta completamente virtuale della storia, Bitcoin, alle 14.443 criptovalute di oggi. Come la diffusione incredibile di questo nuovo mezzo di pagamento – non garantito da nessuna autorità centrale e dunque un attacco insidioso all’idea stessa di stato – rischia di minarne il progetto politico.

Marzo 1851. In quel mese in Africa la Kabilia fu scossa da un’insurrezione; in Asia l’imperatore Nguyễn del Vietnam, Tự Đức, ordinò l’esecuzione di preti cristiani; in Spagna un concordato affidò alla Chiesa cattolica il controllo dell’istruzione e della stampa; al teatro La Fenice di Venezia fu messo in scena il Rigoletto di Giuseppe Verdi. Nessuno prestò attenzione a quel che era avvenuto a Chicago il 13 marzo. Certo non a Londra, dove erano tutti in attesa dell’Esposizione universale che sarebbe stata inaugurata due mesi dopo. Ma neanche negli Usa dove infuriava il dibattito sull’abolizionismo e Harriet Becher Stowe stava scrivendo la Uncle’s Tom Cabin. Ma che era capitato quel 13 marzo nella Windy City? Era stato firmato il primo forward contract per 3000 bushels di grano (un bushel equivaleva a circa un ettolitro) da consegnare nel giugno successivo. Con quella firma era nato il mercato dei futures che si sarebbero poi evoluti in varie tipologie di derivati fino a diventare lo strumento dominante della finanza mondiale, e anche la sua dannazione: nel 2019 sono stati registrati nel mondo 33 miliardi di contratti sui derivati (The WFE’s Derivatives Report 2019, World Federation of Exchanges)[1] per un valore di 12 trilioni di dollari (ma il loro valore nominale è di 640 trilioni).[2]

Anche 158 anni dopo, quel che avvenne il 3 gennaio 2009 passò inosservato, e forse ha avuto la stessa rilevanza storica di quel future sul grano scambiato sulle rive del lago Michigan: quel 3 gennaio 2009 fu creata la prima criptovaluta, Bitcoin. Ricordiamo che erano passati poco più di tre mesi da quando, il 15 settembre 2008, il fallimento di Lehman Brothers aveva innescato la più acuta crisi finanziaria dal 1930, una crisi scatenata proprio da un tipo di derivati (i mutui subprime).

Che nel 2009 la creazione della prima moneta completamente virtuale della storia fosse passata inosservata è comprensibile: il pianeta aveva ben altre gatte da pelare. Ma la mancanza di una qualunque riflessione politica su questo nuovo prodotto finanziario è diventata sempre più inspiegabile man mano che il numero di criptovalute cresceva a dismisura, e la loro capitalizzazione aumentava fino a diventare a pieno titolo una nuova branca della finanza mondiale, che ha anche il suo nomignolo DeFi (Decentralized Finance). Intanto, secondo CoinMarketCap esistono (al 19 novembre 2021) ben 14.443 criptovalute. Il capitale complessivo delle compagnie che le hanno create supera i 2.487 miliardi di dollari: il capitale della prima società, Bitcoin, è di 1.082 miliardi, mentre il valore della seconda, Ethereum, è di 477 miliardi. Nell’articolo di apertura del suo numero del 15 settembre scorso, The Economist osservava che il volume delle transazioni verificate dalla sola Ethereum è ammontato nel secondo trimestre a 2.500 miliardi di dollari, pari al volume delle transazioni mondiali della Visa.

Forse è proprio questa girandola di miliardi e di trilioni a impedirci di cogliere la serietà del problema, perché cifre così grandi sono estranee all’esperienza quotidiana, appartengono a una stratosfera che pertiene all’universo del magico: così le criptovalute diventano un’altra delle tante stregonerie finanziarie che determinano le nostre vite senza che noi ce ne rendiamo conto (sulla retorica dei numeri ho scritto in giugno: “Una valanga di numeri. La pandemia e il potere manipolatorio delle statistiche”).

Eppure le criptovalute pongono un serio problema politico e, ancor più, un serissimo problema teorico. Detto brutalmente, le criptovalute costituiscono un attacco insidioso all’idea stessa di stato.

Il problema politico è evidente dalla lista crescente di paesi che vietano l’uso delle criptovalute (Bangladesh e Bolivia dal 2014, Iraq, Marocc…

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.

Il lavoro invisibile delle donne

Se le condizioni del lavoro sono complessivamente peggiorate per tutti negli ultimi decenni in Italia, il lavoro delle donne è stato nettamente il più penalizzato. Costrette dalla maternità (effettiva o potenziale) a scelte sacrificate e di povertà, molte percepiscono un reddito inferiore rispetto a quello maschile, sono precarie, e spesso invisibili.