Scuola, pandemia e futuro

La scuola pubblica del futuro dovrebbe mettere al centro l’allievo e non relegare ai margini il docente, aumentare gli spazi fisici (aule) e quelli relazionali, vivere meno di carte e più di didattica. E soprattutto superare lo spirito concorrenziale tipico del modello aziendalistico.

Fino a qualche tempo fa ci si interrogava ancora sulla direzione che la scuola avrebbe dovuto prendere: se cioè fosse giusto andare nel senso aziendalistico ormai da tempo avviato dalla stagione riformista, iniziata già nel 1997, che avrebbe dovuto adeguare il nostro sistema scolastico alle direttive europee, finalizzare l’istruzione all’inserimento nel mondo del lavoro, piegandola alle richieste del mercato oppure in quello di una scuola libera da qualsiasi condizionamento, incentrata sulla cultura e sui saperi, indipendente da necessità professionalizzanti.

Oggi anche questa domanda, la cui risposta diventerebbe orientante per riforme e revisioni programmatiche, appare anacronistica e fuori contesto. La scuola, infatti, nel frattempo, ha preso, senza soffermarsi troppo sulla questione, la prima direzione, rendendola di fatto operante sia nella terminologia (dirigente, figure di sistema, razionalizzazione e rendicontazione dei risultati) sia nella prassi, con la chiusura di molti istituti non “necessari”, con il ricatto dell’accorpamento laddove non ci fosse un numero congruo di iscrizioni, con la corsa alla competizione tra istituti la cui Offerta Formativa non si ponesse come attrattiva ed efficace nel reperire studenti, con la concorrenza a “fare utili” al pari di un’impresa che cercasse di restare aperta.

Era inevitabile che questo scatenasse una rivalità tra istituti che, invece di perseguire fini autonomi, sono stati costretti a guardare piuttosto ai fini eteronomi, esterni alla propria natura, schiacciando la propria identità sui primati altrui e accettando la logica agonistica di progetti unici ed esclusivi, gare, olimpiadi varie, utili per l’inserimento tra le top ten degli istituti del territorio. La formazione, allora, ha perso di fatto l’autonomia, altro che realizzarla!, e i docenti, oberati dalle mille occupazioni giornaliere, confusi tra POF, PTOF, RAV, PDP, PNSD, BYOD e chi più ne ha più ne metta, si sono trovati nell’affanno di eseguire diligentemente i compiti richiesti, pena la perdita di autorevolezza e dunque di iscrizioni e dunque di posti di lavoro, spesso attenendosi, da perfetti funzionari, alle disposizioni le più disparate che calavano dall’alto senza che potessero opporvisi, tranne che per qualche decisione ininfluente lasciata loro.

In questo modo hanno finito per distogliere l’attenzione dallo studio e dalla ricerca, attività essenziale di chiunque voglia essere e sentirsi insegnante. La promozione dello spirito critico, espressione presente in ogni programmazione, benché ostentata ossessivamente, è stata di fatto negata nell’acquiescenza a dettami e regole che inducevano a non avviare alcun dibattito che potesse distrarre dall’ottemperare alla mole quotidiana di impegni. Il dirigente, egualmente sotto pressione,è garante di questo ordine che vede sovrano il Collegio dei docenti, spesso solo in teoria, chiamato com’è a ratificare decisioni già prese, laddove l’impianto è ancora verticistico e piramidale, con figure apicali che sono scelte dal dirigente e dunque funzionali alla sua linea d’indirizzo e altre che sono “orientate” in camera caritatis secondo parametri organici al sistema.

La stessa autonomia si è rivelata una formula vuota

Autonomia differenziata, fermiamola ora o sarà troppo tardi

L’Autonomia Differenziata è un progetto politico che lede la natura della Repubblica Italiana, sancita dalla Costituzione come “una e indivisibile”, foriero non solo di inammissibili disuguaglianze ma anche di inefficienze. Contro di essa si sono espressi costituzionalisti, istituzioni, soggetti politici, sociali ed economici, fino ad arrivare alla Commissione Europea. Eppure il governo procede a spron battuto nel volerla attuare, mostrando i muscoli e tappandosi le orecchie. Contro questo scellerato agire a senso unico bisogna agire ora, altrimenti – considerando il criterio della decennalità – sarà davvero troppo tardi.

Regionalismo differenziato o centralismo diffuso? L’autonomia differenziata punta a demolire il Parlamento

La legge sull’autonomia differenziata rischia di diventare una utile stampella al premierato, di rafforzare, più che il regionalismo differenziato, un “centralismo diffuso” che consente al Presidente del Consiglio di negoziare con le singole regioni, esautorando totalmente il Parlamento dalle sue funzioni; e, con esso, svuotare di sostanza la Repubblica democratica.

La guerra contro lo Stato condotta dal liberismo della “sussidiarietà”

Pubblichiamo un estratto del libro di Francesco Pallante “Spezzare l’Italia”, Giulio Einaudi Editore, 2024. In questo volume, il costituzionalista argomenta in profondità le ragioni di una battaglia per fermare il disegno eversivo dell’autonomia differenziata, il quale, come spiega nel capitolo di seguito, trae origine anche dalla visione, intrisa di liberismo e populismo al tempo stesso, tale per cui lo Stato sia automaticamente un “male necessario” e le istituzioni “più vicine ai cittadini” consentano un beneficio. Una visione che nega alla radice la politica, vale a dire l’opera di mediazione e sintesi che è in grado di tenere insieme la società.