Trent’anni fa, Algeria: l’inizio del Decennio Nero, il trauma di un’intera società

Il colpo di stato militare dell’11 gennaio 1992 per l’Algeria fu l’inizio di un lungo decennio di violenza estrema, torture, sparizioni e massacri collettivi. Una sanguinosa guerra civile che è una ferita ancora aperta.

La sera dell’11 gennaio 1992 milioni di algerini seguirono sbalorditi alla televisione l’annuncio delle dimissioni del presidente Chadli Bendjedid. La decisione gli era stata imposta dallo Stato Maggiore dell’esercito che da quel momento, attraverso un gruppo di suoi generali (da allora conosciuti come gli “janvieristes”, riuniti poi nell’Alto Comitato di Stato), governerà direttamente il paese, bloccando come prima cosa il processo elettorale in corso che stava per portare al governo il Fronte islamico di Salvezza (FIS). Il colpo di stato militare di trent’anni fa in Algeria fu l’inizio di un lungo decennio di violenza estrema, torture, sparizioni coatte, massacri collettivi, che resteranno per lungo tempo nella memoria della società tutta come un trauma collettivo, una ferita dolorosa e sanguinante. La massa della popolazione avrà la forza di rialzare la testa e riprendersi le strade di quel perduto protagonismo politico solo il 22 febbraio 2019, primo di tanti venerdì di proteste popolari colorate e pacifiche, che determineranno l’allontanamento del presidente Abdelaziz Bouteflika al potere da vent’anni.

Tutto era cominciato il famoso 5 ottobre 1988, con uno sciopero generale: d’improvviso il paese guidato dal 1962 dal Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) aveva cambiato epoca, da un giorno all’altro. Chadli, che era al potere dal 1978, aveva avviato una progressiva liberalizzazione economica alla quale non era tuttavia seguita la promessa apertura politica. Le manifestazioni dell’ottobre 1988 che la pretesero a gran voce, furono un punto di non ritorno tanto per l’establishment, che comprese come non fosse più procrastinabile lo smantellamento dell’ormai odiato FLN, quanto per la popolazione che, nonostante la durissima repressione, aveva ritrovato una spinta e una motivazione alla partecipazione politica.

Si procedette pertanto a una profonda modifica costituzionale: fu soppresso il regime a partito unico, codificato il pluripartitismo, eliminato qualsiasi riferimento al socialismo e ridimensionato il ruolo dell’esercito da “strumento della rivoluzione” al più classico “garante dell’indipendenza e dell’integrità nazionale”. I primi decisivi passi verso la democrazia furono accolti con entusiasmo dalla popolazione, che in ogni angolo dell’Algeria cominciò a partecipare a dibattiti politici, e da quei partiti che aspettavano da tempo un riconoscimento legale ufficiale. Ricevettero l’autorizzazione a partecipare alle elezioni formazioni di tutte le tendenze: liberale, nazionalista, radicale. Ma la vera novità per l’Algeria e per tutto il Nord Africa fu rappresentata dalla legalizzazione del FIS. Il Fronte discendeva dai movimenti islamisti che erano sorti all’inizio degli anni Ottanta e che si aggregarono intorno alla nuova sigla proposta da due noti personaggi precedentemente incarcerati dal regime: Abass…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.