“La gente deve sapere”: chiunque abbia un po’ di memoria e confidenza con il cinema italiano moderno e contemporaneo probabilmente può riconoscere in questo principio/slogan una delle idee portanti del cosiddetto cinema d’impegno o cinema politico che, a partire dagli anni ’60, e per più di un decennio, è diventato non solo un modello destinato ad un grande apprezzamento internazionale (ricordate Spielberg che compra il Leone vinto a Venezia per La battaglia d’Algeri da Gillo Pontecorvo per restituirglielo – lo aveva acquisito ad un’asta – quando lo rincontra negli anni Novanta come direttore della Mostra del cinema ?), ma anche un filone di successo al box office. In particolare, sono proprio i film di Francesco Rosi quelli in cui si può incontrare quella battuta (come in Il caso Mattei). Allora, la strategia politica del cinema era quella di far uscire dal cono buio tutte le informazioni e i fatti su cui il potere, la stampa filogovernativa, quella di regime, applicavano una censura esplicita o nascosta. Il cinema era una sorta di giornalismo aumentato la cui penetrazione poteva contare su una bassa competitività del giornalismo vero e proprio, vista la tradizionale scarsa circolazione della stampa nel nostro paese e visto, naturalmente, il potere seduttivo e spettacolare del grande schermo. Oggi, che ciascuno di noi è costantemente connesso con la diretta planetaria del web e dei social, che le informazioni e i fatti piovono su di noi ad ogni attivazione del cellulare insieme ad uno strato di opinioni tossico e maramaldo, in gran parte molto scadente, che ne è di questa pratica e del modello linguistico e di pensiero che le erano legati? È una domanda interessante con la quale interrogare il programma della selezione ufficiale della Mostra del Cinema di Venezia.
Una domanda che può, forse, aiutare a capire quali sono quei modelli oggi. “La gente deve sapere” è certamente il principio che ha guidato Ibrahim Nash’at, regista egiziano, poco più che trentenne residente a Berlino, a passare quasi un anno in Afghanistan dopo la partenza degli americani, al seguito di Malawi Mansour, capo dell’aeronautica dei talebani, mentre questi si ritrovano a inventariare i miliardi e miliardi di armi, elicotteri e tecnologie che gli USA hanno abbandonato in un posto chiamato Hollywoodgate (e Hollywoodgate è anche il nome del film documentario che ha realizzato). I talebani lo lasciano riprendere ma ogni tanto qualcuno dice in afgano, senza avere il sospetto che ciò che tra loro si dicono possa venire tradotto in un sottotitolo nel film mostrato a Venezia, che se sgarra – non può riprendere altro che questo: i talebani e il deposito abbandonato – lo faranno fuori sul posto. I talebani hanno bisogno di formare piloti (e per questo graziano alcuni di loro, in …