Israele, la riforma della giustizia spinge i giovani all’emigrazione

Nonostante sia uno Stato incentrato sull’immigrazione, ora Israele si trova ad affrontare il problema dell’emigrazione. Intimoriti dalla riforma della giustizia di Netanyahu e da un Paese che scivola sempre più a destra, inasprendo inoltre la sua componente religiosa, molti giovani cercano di emigrare negli Stati Uniti e in Europa. E a farli desistere dai loro propositi non riesce nemmeno l’antisemitismo in ascesa nei Paesi occidentali.

Mentre il 2 novembre 2022 il radiocronista dichiarava che l’ex Primo ministro e leader del Likud, Benjamin Netanyahu, aveva sigillato il suo ritorno spettacolare al potere –  vincendo 64 su 120 seggi del Parlamento israeliano, con il Partito Sionista Religioso ultra-nazionalista che ne otteneva 14, cruciali per contribuire a formare il governo più di destra nella storia del Paese – Avital Chayat, insegnante trentasettenne, si è alzato dalla sedia e ha iniziato a frugare in un armadio nella casa dei suoi genitori a Gerusalemme.  In una vecchia scatola blu nel retro dell’armadio ha trovato i certificati di nascita dei suoi genitori e dei suoi nonni nati in Polonia, che emigrarono nello Stato ebraico dopo la Dichiarazione di Indipendenza del 1948. “Con l’ascesa di un governo ultra-nazionalista, non ho potuto fare a meno di pensare alla storia della mia famiglia”, ricorda Chayat. Sotto lo sguardo incredulo di suo padre, ha sfogliato le vecchie foto ingiallite e i diplomi scolastici che testimoniano il passato della sua famiglia in Polonia. Il suo passo successivo è stato contattare un avvocato israeliano specializzato nell’ottenimento di cittadinanze estere per aiutarlo a ricevere un passaporto polacco che gli avrebbe garantito il diritto di vivere e lavorare in qualsiasi Paese dell’Unione Europea, senza bisogno di visto o permesso di lavoro.

Chayat non è l’unico. A seguito delle elezioni dello scorso anno e del dibattito sulla controversa riforma giudiziaria che ha scatenato le proteste negli ultimi mesi, la sua storia riflette una tendenza più ampia di israeliani che cercano la cittadinanza negli Stati Uniti e in Europa. La legge proposta dal governo di destra di Israele per indebolire il potere del sistema giudiziario del Paese, unita al progetto dei sostenitori del Sionismo Religioso di uno Stato religioso che promuove valori familiari conservatori e applica la sovranità ebraica a parti della Cisgiordania, sta spingendo i nipoti secolari dei sopravvissuti all’Olocausto a cercare la cittadinanza dell’Unione Europea e a tornare nei Paesi dove un tempo i loro nonni furono perseguitati.

“Il Paese in cui sono cresciuta sta diventando irriconoscibile”, afferma l’avvocato di 38 anni Aya Shahar, facendo riferimento alle tensioni latenti tra ebrei liberali e conservatori che sono emerse dopo le recenti elezioni. “Partiti di estrema destra e partiti religiosi come Otzma Yehudit e il Partito Sionista Religioso stanno prendendo il sopravvento. Ecco perché voglio garantire il futuro dei miei figli in Europa nel caso in cui le cose in Israele si deteriorino in modo irreversibile”, aggiunge la madre di due figli durante una recente manifestazione a Tel Aviv, che si vanta di essere un rifugio laico in un Paese religioso. Nel febbraio di quest’anno ha deciso di far valere il suo diritto ad ottenere un passaporto tedesco, dal momento che i suoi genitori hanno la cittadinanza tedesca.

Una Aliyah al contrario

Gli elettori israeliani hanno votato cinque volte negli ultimi quattro anni, con il Primo ministro più longevo nella storia del Paese, B…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.