‘Ndrangheta in Germania, come si è evoluta la situazione dalla strage di Duisburg

A Düsseldorf, in Germania, è in corso un maxi-processo contro la ’ndrangheta. Nulla a che vedere con le dimensioni di quello di Palermo ma ugualmente storico se applicato al contesto tedesco. Già all’inizio di quest’anno, a Costanza, è stata emessa da un tribunale la prima sentenza di condanna che faceva esplicito riferimento alla ’ndrangheta. Dalla strage di Duisburg che scioccò i tedeschi nel 2007 ad arrivare a oggi, emerge come l’organizzazione criminale che conosciamo con un nome calabrese abbia un profilo sempre più esplicitamente multinazionale.

Anna Sergi: «La ‘ndrangheta vive e ha sempre vissuto attraverso una sorta di indottrinamento paragonabile ai lavaggi del cervello compiuto dai gruppi terroristici: è lo stesso meccanismo per cui tu ti senti giovane, in qualche modo investito della responsabilità di portare avanti il cognome della famiglia, l’idea di essere utile all’organizzazione con la smania di esserlo. Andare in un territorio nuovo, in cui ti vengono insegnati i meccanismi per cui ti puoi rendere utile, è l’unico onore a cui aspirano da piccoli».  

È così che nasce un boss di ‘ndrangheta. Respirando criminalità e onore. La criminologa Anna Sergi lo spiega bene. Bisogna seguire le orme dei padri. Bisogna portare avanti l’onore della propria famiglia. Perché l’onore è al di sopra di ogni cosa. Il «giovane d’onore» è anche un titolo di ‘ndrangheta assegnato per «diritto di sangue» al momento della nascita ai figli degli ’ndranghetisti. È l’eredità che si tramanda di padre in figlio. Esattamente come un titolo nobiliare. È una cosa difficile da capire per chi non conosce il volto più arcaico e oscuro della Calabria, spiega la calabrese Anna Sergi:

Anna Sergi: «Prendi un 20enne, nato e cresciuto in un ambiente in cui ti viene detto dall’inizio della tua vita che lo Stato non ti vuole, ti sta contro ed è il primo nemico. E invece tu gli dici: “Io ti do 5.000-10.000 euro, vai e diventa socio di tuo cugino che ha una pizzeria in Germania”; tu in Germania ci vai perché lì puoi fare qualcosa. C’è sempre questa idea di andare contro lo Stato, di fregare lo Stato italiano – o tedesco –, l’idea che puoi fare soldi facili e tu ti meriti di fare una bella vita, perché vieni da un casato importante».

Siamo di fatto di fronte a una distorsione criminale del meccanismo dell’emigrazione onesta, spiega Anna Sergi. È così che sempre più ‘ndranghetisti arrivano in Germania. Ci arrivano come ci arriverebbe un normalissimo giovane che parte dal profondo Sud in cerca di fortuna. Esattamente nello stesso modo, una volta arrivato qui, cerca appoggio da parenti, amici, conoscenti che vivono già in Germania e che possono dargli una mano, aprirgli la strada. Magari trovargli un lavoretto. Gelaterie e ristoranti italiani gestiti dalla mafia calabrese diventano non a caso il primo posto in cui i futuri ‘ndranghetisti mettono piede. È qui che iniziano a guardarsi attorno e capire come si muovono le ‘ndrine sul suolo tedesco. E i lavoretti diventano presto altri.

È più o meno come devono essersi svolti i fatti nella storia che stiamo per raccontarvi, ambientata sulle rive del suggestivo Lago di Costanza, all’estremo sud della Germania. Una storia che in un certo senso è già entrata a far parte degli annali del diritto tedesco. Anche in questo caso tutto ci riporta a San Luca. E anche qui, c’entra in qualche modo la faida che è culminata nel bagno di sangue di Duisburg del 2007.

“Splendidi parchi, un chilometro di lungolago e i vicoli del centro storico con i loro edifici ricchi di storia invitano a passeggiare ed esplorare la città. (…) Il mercoledì e il sabato mattina sono particolarmente affollati a Überlingen: venditori di frutta e formaggio della regione del Lago di Costanza allestiscono le loro bancarelle nella Hofstatt e il sabato anche nella Münsterplatz. Accoglienti caffè e ristoranti nel centro storico e sul lungolago invitano a fare una pausa”.

Così la c…

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Libano, lo sfollamento forzato e le donne invisibili

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L’approccio del fascismo alle donne era bivalente: da un lato mirava a riportare la donna alla sua missione “naturale” di madre e di perno della famiglia, a una visione del tutto patriarcale; ma dall’altro era inteso a “nazionalizzare” le donne, a farne una forza moderna, consapevole della propria missione nell’ambito dello Stato etico; e perciò a dar loro un ruolo e una dimensione pubblica, sempre a rischio di entrare in conflitto con la dimensione domestica tradizionale. Il regime mise molto impegno nel disinnescare in tutti i modi questo potenziale conflitto, colpendo soprattutto il lavoro femminile. Ne parla un libro importante di Victoria de Grazia.