La crisi della sinistra e il problema della proprietà

Abbandonando il tema del lavoro, la sinistra si è appiattita su posizioni monetariste e ha rinunciato anche ad affrontare propriamente il tema della proprietà. Riguardo quella pubblica, per allontanarsi dal nazionalismo comunista sovietico, ha osteggiato ogni forma di demanializzazione e nazionalizzazione dei beni e delle produzioni, favorendo privatizzazioni, svendite degli assets economici prioritari a tutto danno del Paese e a favore di grandi potenze multinazionali. Ma la gestione condivisa dei beni collettivi non può essere trasferita alla sfera privata.

L’esigenza primaria di delimitare e restringere il campo dei diritti proprietari è connaturata all’esistenza stessa della vita sulla terra e risponde alla necessità di salvaguardare risorse limitate ed esauribili oltre che ad una finalità redistributiva che tuteli l’uguaglianza sociale. Pertanto già nelle istituzioni privatistiche del diritto romano, veniva attribuita una funzione teleologica alla res, sia prevedendone maggiori formalità per il suo trasferimento inter partes per i beni di maggior valore (mancipatio) sia prevedendone uno sfruttamento pubblico mediante le attività di amministrazione della Res Publica. Infatti le amministrazioni sia repubblicane sia imperiali procedevano al recupero dei censi sulle proprietà date in concessione e all’approvvigionamento delle annone.

In epoca medievale tale finalità collettivistica era demandata alle istituzioni come i comuni e le università agrarie, che gestivano i beni e le risorse nell’interesse delle comunità. Vennero così istituiti gli usi civici, una forma di proprietà sociale dalla quale scaturivano specifici diritti di esercizio sul feudo (lo ius spicandi, lo ius pascendi, lo ius aquandi, lo ius lignandi e così via).

Successivamente la bourgeoisie fondò la propria strapotenza economica sottraendo ai ceti aristocratici la capacità di sviluppare e mettere al lavoro la ristagnante staticità dei beni. Quindi la proprietà assunse una nuova finalità dinamica, in grado di produrre capitale. Così in epoca napoleonica il code civil assunse il compito di disciplinare la proprietà come diritto assoluto (erga omnes) non limitabile se non nel pari diritto dell’altrui soggetto, dandole piena centralità nel sistema dello Stato-nazione liberale.

Tale assetto venne conservato in Italia anche nei codici preunitari, nel codice civile del 1865 ed in quello successivo del 1942, seppure in quest’ultimo da un lato appare chiaramente il concetto di limite esterno al diritto (atti emulativi, emissioni…) mentre dall’altro si apre alla funzione corporativa e d’interesse nazionale della produzione industriale (si pensi alla fondazione dell’IRI nello stesso Ventennio). La Costituzione Repubblicana nel suo alto e nobile compromesso, in un modello sociale di economia del capitale, prevede infine una finalità intrinseca alla stessa (la funzione sociale), inserendone dunque un limite interno.

Marx comprese bene come la proprietà dovesse essere abolita non nella sua forma originaria, ma in quella derivata dal modello di produzione capitalistico, ovvero della sua messa in forma secondo uno sche…

Israele, la memoria dell’Olocausto usata come arma

La memoria dell’Olocausto, una delle più grandi tragedie dell’umanità, viene spesso strumentalizzata da Israele (e non solo) per garantirsi una sorta di immunità, anche in presenza di violenze atroci come quelle commesse a Gaza nelle ultime settimane. In questo dialogo studiosi dell’Olocausto discutono di come la sua memoria venga impiegata per fini distorti, funzionali alle politiche degli Stati, innanzitutto di quello ebraico. Quattro studiosi ne discutono in un intenso dialogo.

Libano, lo sfollamento forzato e le donne invisibili

La disuguaglianza di genere ha un forte impatto sull’esperienza dello sfollamento di massa seguito alla guerra nel Libano meridionale. Tuttavia, la carenza di dati differenziati rischia di minare l’adeguatezza degli aiuti forniti e di rendere ancora più invisibile la condizione delle donne, che in condizioni di fuga dalla guerra sono invece notoriamente le più colpite dalla violenza e dalla fatica del ritrovarsi senza casa e con bambini o anziani a cui prestare cure.

Come il fascismo governava le donne

L’approccio del fascismo alle donne era bivalente: da un lato mirava a riportare la donna alla sua missione “naturale” di madre e di perno della famiglia, a una visione del tutto patriarcale; ma dall’altro era inteso a “nazionalizzare” le donne, a farne una forza moderna, consapevole della propria missione nell’ambito dello Stato etico; e perciò a dar loro un ruolo e una dimensione pubblica, sempre a rischio di entrare in conflitto con la dimensione domestica tradizionale. Il regime mise molto impegno nel disinnescare in tutti i modi questo potenziale conflitto, colpendo soprattutto il lavoro femminile. Ne parla un libro importante di Victoria de Grazia.