La gpa e le sue implicazioni: abbiamo diritto a realizzare i nostri desideri?

Il dibattito attorno alla gpa tende a schiacciarsi attorno al tema del consenso delle parti coinvolte, nascondendo le più ampie e gravi implicazioni etiche e politiche di tali pratiche. Un percorso filosofico-politico attraverso il rapporto fra diritti e desideri può aiutarci a fare chiarezza.

Introduzione

Il dibattito riguardante la natura e l’ambito dei diritti si è profondamente intensificato negli ultimi decenni. Una maggiore consapevolezza, alimentata da crescenti movimenti sociali e appelli per una maggiore equità, ha reso centrale la questione dei diritti in molte discussioni contemporanee. Come osserva Norberto Bobbio in L’età dei diritti (Einaudi 1997), nuove richieste emergono in risposta a nuovi bisogni che emergono nella società. Questi bisogni, a loro volta, sorgono da mutamenti nelle condizioni sociali e dalle possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico. L’espansione dei diritti, spiega sempre Bobbio, è dovuta a tre fenomeni che si sono svolti parallelamente: “a) Perché è andata aumentando la quantità dei beni considerati meritevoli di essere tutelati; b) perché è stata estesa la titolarità di alcuni tipici diritti a soggetti diversi dall’uomo; c) perché l’uomo stesso non è piú stato considerato come ente generico, o uomo in astratto, ma è stato visto nella specificità o nella concretezza delle sue diverse maniere di essere nella società, come infante, come vecchio, come malato ecc.”

Il tema di questo mio intervento[1] è il seguente: come si relazionano le nozioni di “desiderio” e “diritto” l’una con l’altra? Esistono desideri che possiamo legittimamente considerare come diritti che la società dovrebbe garantire? E, viceversa, ci sono desideri che, pur essendo comprensibili, non possono o non dovrebbero essere trasformati in diritti? È possibile, o anche opportuno, stabilire una tale distinzione?

Il percorso si articola in quattro tappe: nella prima cercherò di chiarire cosa si intende con “avere diritto” a qualcosa; nella seconda di indagare che cosa sia il desiderio e quali siano i nessi fra desideri, istinti e bisogni; nella terza cercherò di mettere a fuoco i potenziali conflitti fra desideri e diritti; infine, nella quarta, proverò ad applicare i precedenti ragionamenti a un caso concreto e di grandissima attualità, ossia quello della gestazione per altri.

1. Cosa significa “avere diritto a qualcosa”?

Che cosa intendiamo esattamente quando affermiamo di avere “diritto” a qualcosa? Esaminando questa affermazione, è inevitabile riflettere sulla natura stessa della giustizia, poiché le cose a cui riteniamo di avere diritto dipendono in ultima analisi dalla nostra teoria della giustizia. A seconda se pensiamo alla giustizia come virtù (Aristotele), o come eguaglianza (Marx), o come massimizzazione del benessere (utilitarismo) o infine come riconoscimento (Honneth) cambia il senso dell’espressione “avere diritto” a qualcosa.

Senza entrare troppo nel merito delle tante e diverse teorie della giustizia, possiamo qui limitarci a osservare che il concetto di “avere diritto” può essere interpretato in almeno due modi. Il primo si riferisce alla libertà di un individuo di compiere una determinata azione senza interferenze esterne, indipendentemente dal giudizio morale o etico associato all’azione. Un e…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.