È il 4 aprile 1959: il Signor G. (Giorgio Gaberščik in arte Giorgio Gaber, Milano il 25 gennaio 1939 – Montemagno di Camaiore, 1° gennaio 2003) esce dal jukebox de Il Musichiere (celebre programma televisivo diretto da Antonello Falqui, in onda sul Programma Nazionale il sabato sera per 90 puntate, dal 7 dicembre 1957 al 7 maggio 1960); nasce in televisione e muove i primi passi al ritmo di un rock che oltrepassa lo schermo e le generazioni. Uomo onesto intellettualmente e artista coraggioso, le sue canzoni leggere ma altrettanto dure e pesanti, alternano rabbia, ironia e integrità, insegnando – ma senza la pretesa di istruire – ad alzare la testa e a osservare il mondo, da ogni prospettiva, fino a trovare la propria, la prospettiva di Gaber. Riccardo Milani realizza, con il suo docufilm, una sintesi e testimonianza preziosa per chi lo conosce da ieri e per chi lo scopre oggi: il racconto è quello di chi lo ha conosciuto, amato o anche solo visto e ascoltato, passando da esponenti della musica, del teatro, della televisione, del giornalismo, fino alla politica, a riprova della sua risonanza sociale. Senza nascondere le controversie. Tante voci – quelle di Gianfranco Aiolfi, Massimo Bernardini, Pier Luigi Bersani, Claudio Bisio, Mario Capanna, Francesco Centorame, Lorenzo Jovanotti Cherubini, Ombretta Colli, Paolo Dal Bon, Fabio Fazio, Ivano Fossati, Dalia Gaberščik, Ricky Gianco, Gino e Michele, Guido Harari, Paolo Jannacci, Lorenzo Luporini, Roberto Luporini, Sandro Luporini, Mercedes Martini, Vincenzo Mollica, Gianni Morandi, Massimiliano Pani, Mogol, Michele Serra – diventano così una sola, confluendo in quella di Gaber e delineando un’unica narrazione ma plurisfaccettata.
Curioso di sapere, intellettuale promiscuo che non smette di interessarsi alla vita vera, fino all’ultimo, Giorgio Gaber entra nell’ambito popolare, sociale e politico della realtà, utilizzando generosamente, oltre alla voce, il corpo, senza averne mai paura. Che sia un fine o un mezzo, si serve della televisione e della potenza del tubo catodico per raggiungere una vasta popolarità; poi all’improvviso dice basta e abbandona il piccolo schermo: preferisce il calore del palcoscenico.
E allora su il sipario! In teatro non servono altro che una sedia e una chitarra, non c’è bisogno neppure di un’orchestra: Gaber è one man show, generoso nell’usare il corpo fino allo sfinimento, senza risultare mai ingombrante, egocentrico o sopra le righe. All’origine della performance c’è sempre il pensiero. Con l’idea, la parola diventa visibile grazie all’uso totale del gesto: il suo. Chi assiste a quegli spettacoli, ride; chi guarda il film, si commuove, consapevole dell’avanguardia del passato e dell’arretratezza del presente. Si partecipa insieme a una sorta di grande evento metateatralcinematografico. Sostanzioso catalizzatore e instancabile reagente, Gaber appare come corpo scenico e voce; ha il senso della musica, comunica e aggrega. Si esibisce per quello stesso senso comunitario per cui canta parole scomode, facendo politica, senza fare politica.
Eterne e sempre attuali, le sue canzoni sono evoluzioni a vista, tangibili, così come il suo concetto di libertà: Gaber interviene, lascia…