Shopping, la dipendenza dalla moda di cui nessuno parla

Mentre in Italia restiamo ancora abbacinati dal successo delle fashion influencer, nel mondo anglosassone i media e i social media non mancano di affrontare il problema dello shopping compulsivo di moda, abbigliamento e accessori, alimentato dal neuromarketing. E alcune brillanti youtuber guidano la carica della critica al sistema della moda nel suo insieme.

Moda, maestra di vita e di pensiero
“La moda è politica”, affermava tempo fa Elly Schlein a Otto e mezzo, incalzata da Lilli Gruber sulla tanto discussa “armocromista” cui si affida per i suoi outfit di segretaria del Partito Democratico. Passata in un sol colpo dai look noncuranti di quando era deputata semplice all’immagine studiatissima e fondata su infinite sfumature di blazer che caratterizza il suo segretariato, Schlein non sembra aver opposto molta resistenza al fashion-washing che ha reso la sua immagine più instagrammabile (ma avrà anche reso più convincente il suo messaggio politico? Alle Europee del 2024 l’ardua sentenza). Se Mussolini faceva politica con il corpo in vista (il torso nudo, il cranio rasato, pelle viva che non aveva remore a esporsi), da Berlusconi in poi i leader hanno preferito puntare sul vestito o sul signature piece – il doppiopetto del Cavaliere, la felpa, oggi sostituita dalla camicia bianca, di Salvini, il chiodo di Renzi, lo zaino dei deputati 5 Stelle. Al potere simbolico del vestito i leader affidano una comunicazione-lampo della loro proposta politica; ma in mancanza di questa, possono comunicare anche solo se stessi o le loro vaghe intenzioni, usando il look come riempitivo/distrattivo.

Sul binomio moda e politica si è detto e scritto molto, ma senza toccare il nodo della questione (almeno sui media nazionali), e cioè l’ubiquità della moda e i suoi amplessi con le élite culturali, l’editoria e l’arte contemporanea. Le pagine dei giornali, che siano cartacei o online, sono sature di pubblicità dei brand del lusso (e questo spiega la scomparsa, sulla stampa più accreditata, di un discorso critico sulla moda come luogo di potere e formazione del consenso). La moda finanzia eventi culturali, mostre, stabilisce sodalizi con artisti quotati (per citare solo due esempi, Givenchy e Marina Abramovic e, più recentemente, Miuccia Prada e Francesco Vezzoli), cavalca sommovimenti sociali (come, ad esempio, la body positivity), brandizza posizioni ideologiche (è stata Maria Grazia Chiuri, direttrice creativa della maison Dior, a offrirsi di disegnare gli abiti del matrimonio queer di Micaela Murgia). Intercetta sottoculture estetiche e le trasforma in trend (complice la cassa di risonanza della stampa, che acriticamente riceve e amplifica i messaggi dei trend setter), su tutto spargendo una patina glamour di desiderabilità.

La moda è uno dei più riconosciuti, ascoltati e intoccabili maître-à-penser del nostro tempo. Dalla superficie in cui era confinata una volta, ha astutamente guadagnato la profondità, dandosi significati messianici e rivoluzionari (pioniere ne fu, in Italia, Oliviero Toscani, che da fotografo di moda iniettò in Benetton messaggi umanistici da evangelista apocrifo). Da frivola che era (o era considerata), si è fatta terribilmente seria. Oggi è divenuta uno dei massimi luoghi di elaborazione culturale, prima ancora che estetica. Non pretende più solo di vestirci bene, ma soprattutto di dettare stili di vita e di pensiero. Ben oltre la semplice autopromozione pubblicitaria, colonizza spazi culturali duplicandosi come discorso sulla moda, con stilisti e buyers e fashion editor chiamati a spiegare il mondo attraverso le collezioni che sfilano sulle passerelle delle fashion week. Se da un lato è innegabile il portato simbolico e antropologico dell’abbigliamento, dall’altro lato stiamo diventando incapaci di produrre contenuti che non passino attraverso il medium universale del fashion&style. Da anni assistiamo ad una fashionizzazione del mondo che non ha precedenti, con la moda che dice la sua su tutte le umane cose e le umane cose costrette a dirsi innanzitutto in forma di moda, se vogliono trovare ascolto.

La moda passa, i danni restano
Per misurare la portata del fenomeno, ecco qualche dato statistico: si stima che il fatturato del mercato globale dell’abbigliamento ammonti a 1,53 trilioni di dollari nel 2022, e per il 2023 si prevede un aumento delle entrate, che supereranno 1,7 trilioni di dollari (per il segmento del lusso, le previsioni parlano di un raddoppio del fatturato tra il 2022 e il 2028)[1]. La produzione e il consumo di abbigliamento sono cresciuti in modo esplosivo negli ultimi decenni: uno studio McKinsey ha dimostrato che il numero di vestiti pro capite acquistati tra il 2000 e il 2014 è aumentato del 60%[2], complice la comparsa sulla scena dei marchi di fast fashion (ad esempio Zara, Mango, H&M, ecc.) che forniscono la versione conveniente – perché perlopiù in poliestere, materiale altamente inquinante – dei modelli griffati.

L’industria del fast fashion, basandosi su acquisti d’impulso …

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.