Riforma costituzionale: il consenso e la forza

Il progetto di riforma costituzionale del Governo è un mix di tentazioni di “potere forte” e di dilettantismo istituzionale, laddove in realtà buoni progetti di riforma delle istituzioni democratiche sarebbero possibili e persino necessari, con l’intento però di dare gambe solide al contrappeso dei poteri, non certo di privarsene come vorrebbe fare questa maggioranza.

Il 15 luglio del 1923, pochi mesi prima dell’approvazione della “legge Acerbo”, Filippo Turati ammoniva: “Sotto l’intimidazione non si legifera; non si legifera tra i fucili spianati e con la minaccia incombente delle mitragliatrici. Una legge, la cui approvazione vi è consigliata dai 300 mila moschetti dell’esercito di dio e del suo nuovo profeta, non può essere che la legge di tutte le paure e di tutte le viltà. Quindi non sarà mai una legge. Voi continuate a baloccarvi, signori del Governo, in quella quadratura del circolo che è l’abbinamento del consenso e della forza. Or questo è l’assurdo degli assurdi. O la forza o il consenso. Dovete scegliere. La forza non crea il consenso, il consenso non ha bisogno della forza, a vicenda le due cose si escludono”. Cento anni dopo, il crepitio delle mitragliatrici, per disgrazia altrui e nostra fortuna, è lontano, in un altrove che pur non cessa di interpellare le nostre coscienze. Epperò, la lingua batte dove il dente duole, si suol dire. Gli impegni elettorali si rispettano, nei sistemi democratici. E soyGiorgia è… donna d’onore; valga la recita shakespeariana: “Ne dubitate? La faccio…la faccio”. Parliamo della riforma costituzionale, ovviamente. Salva la precisazione, dettata dalla prospettiva referendaria, con la mente opportunamente rivolta a Berlusconi e Renzi: “Ma non mi ci impicco…”. Stranezze, versandosi in tema di madre di tutte le riforme. Ovvero: una prima apertura alle opposizioni, peraltro implicitamente anticipata da un’intervista del Presidente del Senato, forse consapevole – è un auspicio – dell’inappropriatezza di certi toni trionfali da… marcia su Roma.

Il mantra e il cabaret. Il Paese di siffatta narrazione, quasi allo stremo delle forze, invoca non già il recupero di un maggior vigore e una migliore condizione per sé stesso, bensì un premier forte e atteso da troppo tempo. Del resto, la stabilità e l’efficienza dei governi dipendono dalla “forza”, non più dai “fucili spianati”. Un’inderogabile necessità della storia nazionale, dunque, oggi appare realizzabile, sebbene sarebbe del tutto improprio affermare che un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. Il concerto (più o meno) sinfonico dei legittimi rappresentanti di un terzo del Paese reale, quasi in spirito natalizio, intona un canto di redenzione: al bando i “governi tecnici” e i “ribaltoni”, causa ed effetto delle nostre sciagure.

Governi tecnici? Come quelli intrepidamente sostenuti da amplissime maggioranze parlamentari? SoyGiorgia, oltre alla debole memoria, deve soffrire anche di traveggole, visto e considerato che i governi “tecnici” non esistono in nessun luogo, neppure nel Paese del suo fratello d’Ungheria, Viktor Orbán. Nei sistemi di democrazia più o meno compiuta esistono soltanto Governi costituzionali, approvati dalle assemblee parlamentari, dove si può, sovranamente e legittimamente, anche decidere che il Primo ministro sia una personalità estranea ai partiti politici e alle competizioni elettorali. Esattamente all’opposto della pretesa, tra gli altri, di Silvio Berlusconi e in contrasto con il vezzo demagogico dei nomi inseriti in un cerchio dentro il simbolo del partito o della coalizione. Fuori dalle tecnicalità, insomma, alla stregua del dettato costituzionale, ogni Presidente del Consiglio dei ministri, dopo l’incarico conferitogli dal Quirinale e il voto di fiducia parlamentare, cessa, deve cessare dal proprio r…

Autonomia differenziata, fermiamola ora o sarà troppo tardi

L’Autonomia Differenziata è un progetto politico che lede la natura della Repubblica Italiana, sancita dalla Costituzione come “una e indivisibile”, foriero non solo di inammissibili disuguaglianze ma anche di inefficienze. Contro di essa si sono espressi costituzionalisti, istituzioni, soggetti politici, sociali ed economici, fino ad arrivare alla Commissione Europea. Eppure il governo procede a spron battuto nel volerla attuare, mostrando i muscoli e tappandosi le orecchie. Contro questo scellerato agire a senso unico bisogna agire ora, altrimenti – considerando il criterio della decennalità – sarà davvero troppo tardi.

Regionalismo differenziato o centralismo diffuso? L’autonomia differenziata punta a demolire il Parlamento

La legge sull’autonomia differenziata rischia di diventare una utile stampella al premierato, di rafforzare, più che il regionalismo differenziato, un “centralismo diffuso” che consente al Presidente del Consiglio di negoziare con le singole regioni, esautorando totalmente il Parlamento dalle sue funzioni; e, con esso, svuotare di sostanza la Repubblica democratica.

La guerra contro lo Stato condotta dal liberismo della “sussidiarietà”

Pubblichiamo un estratto del libro di Francesco Pallante “Spezzare l’Italia”, Giulio Einaudi Editore, 2024. In questo volume, il costituzionalista argomenta in profondità le ragioni di una battaglia per fermare il disegno eversivo dell’autonomia differenziata, il quale, come spiega nel capitolo di seguito, trae origine anche dalla visione, intrisa di liberismo e populismo al tempo stesso, tale per cui lo Stato sia automaticamente un “male necessario” e le istituzioni “più vicine ai cittadini” consentano un beneficio. Una visione che nega alla radice la politica, vale a dire l’opera di mediazione e sintesi che è in grado di tenere insieme la società.