In Uganda i profughi si sentono molto più accolti che in Europa

Un tempo l’Uganda era un Paese di transito lungo le rotte migratorie. Chi emigrava dal sud dell’Africa verso Europa e Stati Uniti non avrebbe mai immaginato di trovare lì una nuova patria. Ma grazie ad accorte politiche d’integrazione, che sostanzialmente equiparano gli stranieri ai cittadini locali, il Paese centrafricano ha costruito un sistema modello per l’accoglienza.

(Kampala, Uganda). Qui la terra è rossa, il cemento non c’è. La strada è piena di boda-boda, delle moto-taxi molto comuni nei Paesi centroafricani, che ti fermano ogni due metri per sapere se vuoi un passaggio e poi ripartono, per andare chissà dove. È una città caotica: si respira a fatica per il troppo smog, c’è un continuo suono di clacson che rimbomba. Le case sono tutte basse, è pieno di spianate di terra in cui non c’è nulla. Dalle strade principali si diramano stradine più piccole, in cui la povertà diventa un elemento quotidiano e normale, che chiamano ghettos. Qui le case sembrano costruite in luoghi casuali, ad altezze diverse, con materiali di fortuna. Le vie sono piene di persone, bambini e adulti. “Hi, how are you?”, mi salutano tutti coloro che incontro, guardandomi con interesse misto a diffidenza.

“In Canada ci sono tantissime persone ricche, mentre tu sei il nulla, non vali niente. E poi perché dovrei andare in un Paese in cui puoi vedere solo persone bianche?”. Benjamin ha quasi 50 anni, una parlantina irrefrenabile e una cicatrice sul naso procuratagli dalla polizia sudanese dopo essere scappato dall’Eritrea a poco più di 20 anni. Originario dell’Eritrea, vive in Uganda, a Kampala, da ormai più di due decadi. Per un po’ ha cercato di andare in Canada, una delle mete principali dei rifugiati che arrivano in Uganda, ma proprio quando aveva ottenuto il ricongiungimento familiare con la sorella che si trovava già lì ha rinunciato. Benjamin, come tanti altri suoi connazionali, ha lasciato il suo Paese ed è arrivato in Uganda per poi fare richiesta di asilo in Europa o nell’America del Nord. Ma lui, come tanti altri, alla fine ha deciso di rimanere. E vive la sua vita trascorrendo le giornate a Kampala, nel quartiere di Kabalagala, una zona della capitale abitata e frequentata da molti rifugiati di altri Paesi africani che ormai vivono stabilmente lì, avendo trovato in Uganda una pace la cui assenza li aveva portati ad abbandonare la loro casa.

L’Uganda è il Paese con il maggior numero di rifugiati in tutta l’Africa e il terzo in tutto il mondo, dopo Turchia e Pakistan. Sono più di un milione e mezzo i rifugiati presenti nel territorio ugandese a luglio 2023, stando ai dati rilasciati dall’Unhcr. Eppure, l’Uganda è un Paese molto povero, con un reddito annuo inferiore ai 700 dollari e un governo autoritario che ha destato l’attenzione dei media occidentali per le strette sui diritti civili degli ultimi anni. Come può una nazione del genere avere un sistema di accoglienza considerato come un modello da esportare in tutto il mondo?

“L’Uganda è storicamente un Paese che offre rifugio a chi scappa dalla guerra. Inoltre, il governo ugandese di Museveni ha capito una cosa fondamentale, che noi Paesi occidentali ancora non riusciamo a capire: un rifugiato accolto diventa un consumatore del proprio Stato e, in alcuni casi, anche un produttore. Questo chiaramente cambia le carte in tavola, perchè il rifugiato non viene visto come un fardello ma, al contrario, come una risorsa”, commenta Paolo Giambelli del programma Aics (Assistance to Individuals in Crisis Situation), gestito dall’ambasciata italiana in Uganda.

Un po’ tutti abbiamo in mente il “modello Riace”, inventato in un piccolo comune calabrese che ha assunto il volto del suo sindaco, Mimmo Lucano, nel quale i rifugiati che arrivavano ricevevano una casa abbandonata da anni e un lavor…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.