Il Re è disperato. Era convinto di avere un potere infinito, immenso, incorruttibile. Persino il sole obbediva ai suoi ordini, spuntando luminoso nel cielo ad un suo schiocco di dita. Ora invece tutto sembra sfuggirgli di mano. Il Regno è in rovina: la popolazione da nove miliardi si è ridotta a un migliaio di vecchietti, il palazzo Reale è spaccato in due da una crepa e le ragnatele crescono a ritmo infernale accumulandosi negli angoli. Un dramma? Certo, ma non è nulla rispetto alla notizia funesta che sta per arrivare: per Re Bérenger è giunta l’ora. La sua fine è imminente.
Inizia così Il Re muore di Eugène Ionesco (1909-1994), capolavoro nel quale è riassunta tutta la poetica del grande drammaturgo rumeno naturalizzato francese, scomparso a Parigi trent’anni fa. Vale la pena raccontarne la trama, dato che fra i suoi fili è nascosta l’essenza del teatro dell’assurdo ioneschiano.
Il Re, dunque, viene a sapere della sua morte, ma inizialmente non pare troppo turbato: “Certo, so che morirò”, risponde tranquillo al medico che gli ha appena dato la notizia, “Morirò tra quaranta, cinquanta, trecento anni. Più tardi. Quando vorrò, quando ne avrò tempo, quando deciderò io”.
Chi se non lui stesso, sovrano onnipotente, demiurgo di ogni destino, può determinare l’ora e il giorno della sua stessa morte? Sarà la Regina Margherita, realista implacabile, a metterlo davanti alla cruda realtà: “Tu morirai tra un’ora e mezza, morirai alla fine dello spettacolo”.
Inizia così un tragicomico crescendo, in cui il Re, incredulo, si dimena tentando di dimostrare a sé stesso e agli altri di avere ancora in pugno lo scettro del potere e che le illazioni sulla sua morte non sono altro che invenzioni farlocche di congiurati e “bolscevichi”, capeggiati dalla Regina Margherita e dal medico.
Il sovrano si accinge dunque a una dimostrazione pratica della sua forza: comanda che siano lanciati razzi, ma questi si sganciano e subito crollano a terra; intima che cadano le teste della Regina e del medico, ma dopo un piccolo ciondolio, queste rimangono ben ancorate sui rispettivi colli; ordina agli alberi di spuntare dal pavimento, al tetto di sparire, al lampo di palesarsi cosicché lui lo possa afferrare con la mano. Ma nulla di tutto ciò accade. A niente vale l’incoraggiamento dell’altra Regina, Maria, perdutamente innamorata. La corona gli cade, lo scettro anche, il Re non riesce più a stare in piedi, inciampa goffamente precipitando a terra.
È finita. Il sovrano finalmente se ne rende conto: “Perché sono nato se non doveva essere per sempre?”, si chiede allora, inconsolabile.
Ma se la morte è davvero incombente, che almeno il suo ricordo venga perpetuato per l’eternità: “Che tutti sappiano a memoria la mia vita”, sbraita, “che tutti la rivivano. […] Che si distruggano tutte…