Non si può non scomodare Platone quando si parla di realtà virtuale. Non tanto per l’autorevolezza del lascito filosofico, quanto per l’inesauribile ricchezza interpretativa delle allegorie tramandate. Se ad esempio si prendono i prigionieri della celebre caverna descritta nella Repubblica e al posto delle catene che li tengono imprigionati davanti alle ombre li si dota di visori per una realtà alternativa, ecco che l’antica critica al mondo dell’opinione acquista nuovo senso e diventa una denuncia verso le recenti apparecchiature digitali. Nonostante il paragone fra la catabasi platonica e l’uso acritico di dispositivi come l’Apple Vision sia stato proposto in diverse varianti, soprattutto in seno a questa veste polisemica, tuttavia non sempre è facile giungere a conclusioni capaci di rimanere fedeli a realtà così lontane fra loro.
Il visore per la realtà ibrida di casa Apple è un computer in miniatura dotato di telecamere e di uno schermo ad alta risoluzione che richiede di essere indossato sul viso da un utente come fossero degli occhiali; gli apparecchi di registrazione catturano ciò che l’utente ha attualmente davanti a sé e lo “mandano in onda” sui monitor, integrando immagini reali con grafiche digitali sovraimpresse. Diversamente dai prigionieri dell’allegoria, il moderno recluso non nasce con le catene ai polsi ma sceglie consapevolmente di indossarle dopo aver fatto almeno un’esperienza della realtà esterna (della quale fa parte anche il visore stesso). L’elemento mancante è quello della credenza: indossare il visore non implica una conversione automatica delle proprie opinioni sul mondo e non ci illude che i surrogati digitali somministrati dagli schermi siano la realtà stessa. In un certo senso, il fascino per i wearable device – protesi esterne di un neo-transumanesimo – trova le sue ragioni proprio nell&…