Giovanni Gentile, 80 anni fa l’uccisione del filosofo. Intervista a Marco Mondini

Il 15 aprile 1944 moriva il filosofo Giovanni Gentile, ucciso da un gruppo di partigiani gappisti, dei quali faceva parte anche la sua ex allieva Teresa Mattei. Una decisione presa sulla base del permanente supporto dato dal filosofo al regime fascista prima e alla Repubblica di Salò poi. A riannodare i fili della vicenda è stato per noi lo storico Marco Mondini, dell’Università di Padova.

Prof Mondini,1 prima di entrare nel merito dell’uccisione di Giovanni Gentile, volevo invitarla a ripercorrere il rapporto tra il filosofo e il fascismo: quanto Gentile ha contribuito a legittimare culturalmente il regime? E quali erano i suoi rapporti personali con Mussolini?

Per rispondere a questa domanda si può partire da due fonti. Una è una fotografia destinata a diventare celebre. Risale alla primavera del 1932 e ritrae insieme Benito Mussolini e Giovanni Gentile all’inaugurazione dell’Istituto di Studi Germanici a Roma. Il filosofo è un passo indietro rispetto al duce, deferente come ogni buon italiano che si rispetti, ma i due sono evidentemente impegnati in una fitta discussione, isolati dal seguito di funzionari, dirigenti del partito, segretari e notabili vari.

Il secondo documento è il Manifesto degli intellettuali fascisti, pubblicato per la prima volta sulle pagine de Il Popolo d’Italia il 21 aprile 1925. Gentile, che ne era stato il promotore, definiva lì il fascismo un movimento allo stesso tempo politico e morale, sorto nel caos del 1919 per riaffermare i valori spirituali della Vittoria nella Grande Guerra, ossia i valori dell’Italia più genuina e migliore, e per riportare nel presente quella dimensione religiosa che era stata propria dei patrioti ottocenteschi (di Mazzini, in primo luogo) e senza la quale l’Italia stava perdendo il senso della sua esistenza. Da questa visione, Gentile non sarebbe mai tornato indietro. Il fascismo era nato per portare a compimento la missione del Risorgimento, facendo del Paese ciò che era stato sempre destinato a diventare: una nazione grande, in cui i conflitti interni tra partiti e individui sarebbero scomparsi, sublimati nella concordia in nome di una patria che avrebbe cessato di essere un mero contenitore di interessi politici, una struttura di contese tra fazioni con programmi diversi così come l’avevano trasformata, pervertendola, la liberal-democrazia e il materialismo. Certo, c’è da chiedersi quanto l’infatuazione per il movimento di Mussolini e poi per il regime (a cui non rinnegherà mai la propria fedeltà) facessero di lui un “filosofo in camicia nera”, per citare il titolo di uno dei tanti volumi scritti sulla sua parabola intellettuale e soprattutto politica attraverso il Ventennio. Anche perché di infatuazioni del genere, tra gli intellettuali e gli accademici italiani, a cavallo del 1922 se ne contavano parecchie. Ma la questione, così, sarebbe mal posta. Giovanni Gentile si considerava senza dubbio un precursore intellettuale del fascismo, ma del movimento (e poi del Partito, fondato nel 1921) non faceva parte quando, nell’autunno 1922, la pantomima della marcia su Roma portò all’instaurazione del primo governo Mussolini. Nell’atto di costituire il suo gabinetto, al nuovo Presidente del Consiglio (che di lì a qualche tempo si sarebbe autoproclamato capo del Governo) venne presentato il nome di Gentile, presumibilmente da Agostino Lanzillo, sindacalista e all’epoca stretto collaboratore di Mussolini. Gentile, non va dimenticato, era in quegli anni un nome celebre in Italia: era, con Croce, il filosofo più conosciuto, ma era soprattutto un intellettuale impegnato nelle politiche culturali e dell’istruzione, lavorando alla riforma di quest’ultima, come altri colleghi che gli anni della militanza politica avrebbero allontanato (come Ernesto Codignola). E al dittatore in fieri, un uomo di questa visibilità faceva comodo. Del resto, in un momento in cui il potere era stato conquistato ma era tutt’altro che sicuro, tutta la costituzione del suo primo esecutivo sarebbe stato un gioco di equilibrismi per dimostrare agli italiani e al mondo che lui, Benito Mussolini, non era né un avventuriero rivoluzionario né uno spietato autocrate (almeno, non ancora), ma un leader nazionale saggio ed equanime a cui premeva solo restaurare l’ordine e la grandezza del Paese. Insomma, Gentile in quel governo figurava allo stesso titolo di altri tecnici (come i ministri militari Diaz e Revel, che gli garantivano il sostegno delle Forze Armate): era un’icona. Non sappiamo se Gentile se ne fosse reso conto e se gli importasse. Aveva raggiunto la posizione a cui mirava da anni per poter sviluppare i suoi progetti di profondo riordino del sistema dell’educazione primaria e dell’insegnamento superiore nazionali. Fascista in camicia nera, se vogliamo, lo sarebbe diventato solo l’anno successivo, da Ministro della Pubblica Istruzione.

La tessera l’avrebbe ricevuta, ad honorem, per volontà dello stesso Mussolini, che il filosofo avrebbe poi ringraziato con una lettera aperta che era anche una dichiarazione pubblica (non che ne fossero mancate) di sostegno e ammirazione per il capo del governo e padrone del Paese: “Mi son dovuto persuadere che il liberalismo, com’io l’intendo e come lo intendevano gli uomini della gloriosa Destra che guidò l’Italia del Risorgimento, il liberalismo della libertà nella legge e perciò nello Stato forte e nello Stato concepito come una realtà etica, non è oggi rappresentato in Italia dai liberali, che sono più o meno apertamente contro di Lei, ma per l’appunto, da Lei. E perciò mi son pure persuaso che fra i liberali d’oggi e i fascisti che conoscono il pensiero del Suo fascismo, un liberale autentico che sdegni gli equivoci e ami stare al suo posto, deve schierarsi al fianco di Lei…”. Da questo punto di vista, quella fotografia del 1932 immortalava un rapporto reale: quello tra il filosofo, che avrebbe s…

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