Sebben che siamo donne, paura non abbiam. Così intonavano le mondine nelle risaie della Pianura Padana già alla fine dell’Ottocento e a distanza di più di un secolo, anno domini 2024, quel «sebben» con cui si apriva la prima canzone di lotta proletaria al femminile è ancora una pungente realtà. Anche quando son più preparate, a parità di mansione, le donne guadagnano meno dei colleghi, soprattutto perché la loro è, nella migliore delle ipotesi, una condizione di lotta quotidiana. Lotta per conciliare i tempi di vita e di lavoro. Lotta per avanzare di carriera e per essere riconosciute. Lotta per non essere zittite o oggetto di risatine e gomitate. Lotta perché invisibili, pur quando ricoprono ruoli indispensabili o sono portatrici di professionalità uniche. C’è chi la prende con filosofia, chi muove il cambiamento verso la parità tutti i giorni a piccoli passi, chi agisce collettivamente facendo rumore e anche chi, per fortuna, le differenze di trattamento sulla propria pelle non le ha mai vissute.
Un fatto resta, però, incontrovertibile. Per loro portare a casa la pagnotta è molto più difficile che per i parigrado uomini. Foss’altro perché, per citare l’ultimo rapporto sulla maternità di Save the Children, devono far le equilibriste e, sapendolo fare bene, questa capacità può diventare un boomerang. Lo dicono i numeri. Il Servizio Studi del Dipartimento Lavoro della Camera dei deputati, per esempio, ricorda che secondo l’Eurostat il tasso di occupazione delle donne in età compresa tra i 20 e i 64 anni è il più basso tra gli Stati dell’Unione europea e cioè pari al 55%, mentre la media è del 69,3. Le italiane occupate sono circa 9,5 milioni; i maschi sono 13 milioni. Una donna su cinque fuoriesce dal mercato del lavoro a seguito della maternità. L’Istat r…