Lavoratrici domestiche migranti in Libano: schiavitù dei giorni nostri

Si stima che circa 250mila lavoratrici domestiche migranti risiedano in Libano: la maggior parte proviene da Paesi africani e del Sud e Sud-Est asiatico, tra cui Bangladesh, Sri Lanka, Etiopia, Ghana, Indonesia, Filippine, Madagascar e Nigeria. Sono escluse dalle tutele del diritto del lavoro libanese e il loro status nel Paese è regolato dal sistema "kafala", un regime che configura di fatto una moderna forma di schiavitù.

La prima accortezza che mi chiede è di cambiare il suo nome in Sarah: nonostante le abbia assicurato che la registrazione servirà solo a citare con precisione le sue parole, non sembra fidarsi. E ogni volta che parlando di sé sfugge alla promessa dell’anonimato, ne infrange il voto, si affretta a correggersi: “Sarah, not me”. Il titolo di questa storia potrebbe essere: paure di una lavoratrice domestica in Libano.

Neppure vuol rivelare il nome del villaggio del Madagascar da cui proviene, e che ha lasciato, senza tristezza, ormai quindici anni fa. A suo dire, delle circa 20mila donne assunte in Libano come lavoratrici domestiche e provenienti dall’isola dell’Africa orientale, lei – Sarah spaventata, Sarah senza nome – è l’unica a provenire da quel village. Le chiedo subito se dal Paese natale per cui non sembra provare nostalgia siano emigrati anche uomini. “Solo tre, che io sappia”, mi risponde.

Lo stesso numero di uomini che si è lasciata alle spalle: un marito e due figli. Di padre e fratelli non parla: famiglia, in Madagascar, è un concetto relativo. Dopo il matrimonio dimentichi quella di provenienza e vieni completamente assorbita in quella acquisita. Par alliance, come dicono in francese: alleanza tradita, ça va sans dire. Il marito, dopo che Sarah partì per Beirut, il 20 aprile del 2009, lasciò i due bambini alla madre (il più grande nato nel 2004 e il piccolo nel 2005), e da allora non si sa che fine abbia fatto. “Non si è fatto sentire neanche per il divorzio”, racconta senza amarezza. “Così, tuttora siamo semplicemente separati”.

Degli uomini della sua vita di prima, gliene è rimasto uno solo – il piccolo Carol – dopo che il maggiore, Mickael, è stato ucciso, appena diciannovenne, lo scorso novembre. Accoltellato in una rissa. Aveva insistito per trasferirsi in città, nessun padre a impedirglielo, nonostante glielo avessero detto, e più volte, che era pericoloso. Finito in circoli malavitosi, una gang di tredicenni l’ha percosso fino allo svenimento, un coltello nella furia ingenua di uno di loro ne ha decretato la morte. Mi mostra la foto del cadavere, non piange ma è piena di rabbia. Non è potuta tornare a casa, al village, per il funerale. Il titolo di questa storia, mentre i dettagli si accumulano, potrebbe essere: legge ingiusta proibisce alla madre di seppellire il figlio.

Intervisto Sarah nello spazio della casa in cui da pochi mesi affitto una stanza, sono impacciata nei gesti, le offro un dattero, una tazza di caffè, ma lei accetta solo un bicchiere d’acqua. Si serve da sola e quando si è dissetata si accinge …

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