Prima il cittadino, poi il credente

Non viviamo in uno Stato di Dio ma in uno Stato della Costituzione in cui vige la libertà di religione: ognuno può credere, nessuno è costretto a farlo. Credenti, diversamente credenti e non credenti devono convivere. Ma lo Stato in sé deve essere senza Dio.

Perché non credo in Dio? Per diverse ragioni. Tralascio qui tutto quello che si potrebbe imputare alle religioni e ai loro centri di potere in terra: dall’Inquisizione cristiana al fondamentalismo islamico, per citare solo due esempi. Nessuno può sinceramente affermare che le religioni abbiano reso il mondo migliore. Santi guerrieri di ogni denominazione si appellano alle proprie religioni per perseguitare e uccidere chi ne professa un’altra o nessuna e in generale chi osa pensare autonomamente. È vero che la maggior parte delle religioni professa un mondo di pace, ma di rado hanno avuto nella realtà concreta un effetto di pace. Le religioni sono costrutti umani, e come tali sempre imperfette. Ma questa non è una ragione sufficiente a giustificare l’ateismo, nel cui nome pure sono stati commessi delitti. Non è la fede o la mancanza di essa a produrre delitti, ma il fanatismo.

Mettiamola così: io sono un convinto oppositore della Chiesa, del clero, dei fondamentalisti religiosi. Sono un ateo non dogmatico. Io credo che Dio non esista, ma naturalmente non posso dimostrarlo. Mi si potrebbe obiettare che dovrei definirmi agnostico e allora val la pena spendere due parole per chiarire. Atei e agnostici hanno qualcosa in comune, e per questo vengono spesso confusi: entrambi non credono in Dio. L’ateo crede che Dio non esista. L’agnostico non si sbilancia e lascia la questione aperta. Ma se qualcuno affermasse: “Io so che Dio non esiste”, non saremmo di fronte a un ateo, ma a un idiota. E la stessa cosa vale, dal mio punto di vista, anche per chi afferma: “Io so che Dio esiste”. In entrambi i casi, infatti, si confonde il credere con il sapere.

In una democrazia credenti e non credenti devono convivere, ed è un bene. Gli unici a cui questo dà fastidio sono i dogmatici e i fanatici.

La verità è che c’è una tensione insanabile fra la religione e la modernità. Émile Durkheim riteneva che nelle società moderne la religione avrebbe progressivamente perso il suo ruolo dominante e non sarebbe più stata in grado di offrire un fondamento di senso del mondo. Avrebbe insomma perso la sua egemonia interpretativa, ma non sarebbe scomparsa. Aveva ragione. Il potere della religione e delle sue istituzioni si è certamente ridotto nella società postmoderna, ma non è stato distrutto. E nelle scienze sociali oggi si parla molto più di “rinascita delle religioni” che di secolarizzazione.

Allo stesso tempo però la perdita di significato della religione e della Chiesa è evidente, specialmente nell’Europa occidentale. In Germania la fede organizzata è in declino, almeno questo è ciò che dimostrano le cifre costantemente in calo degli affiliati a…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.