Concepire il femminile. Confronto tra una femminista e un liberale critico / Seconda parte

Linguaggio, femminismo, differenza, lavoro. Monica Lanfranco risponde alla lettera di Pierfranco Pellizzetti su identità e lotte del movimento delle donne pubblicata nel precedente numero di MicroMega+.


Caro Pierfranco, intanto grazie. Per aver pensato a me e al mio lavoro, per la proposta di scambio, quindi di relazione: sarebbe andata benissimo anche una intervista classica, me ne capitano un’infinità negli ultimi decenni, dove però la reciprocità è mancante. Poni questioni complesse, fai molti riferimenti come si confà alla tua cultura enciclopedica, e dato che sarebbe interessante che le persone che ci leggono riuscissero a individuare i nodi di questo nostro dialogo, sia nella concordanza così come nella discordanza, ho provato a isolare alcune parole chiave.

Ho scelto linguaggio, femminismo, differenza e lavoro.

Faccio una premessa, che spero chiarisca almeno in parte il mio punto di partenza nell’osservare il mondo e provare a intervenire per modificarlo.

Sono una attivista femminista di mezza età, che ha cercato di fare fin da adolescente il mestiere di giornalista e di formatrice non prescindendo mai dalla sua appartenenza al sesso femminile.

Essere una femmina, se all’inizio della comparsa nel ventre di mia madre è stato un caso, ha assunto nella mia vita un significato e una centralità imprescindibile. Per questo, una volta entrata nel mondo adulto, non ho mai condiviso l’affermazione secondo la quale “siamo tutti persone”, spesso usata per conciliare fintamente, e non affrontare mai, l’inevitabile conflitto tra i due sessi.

Secondo questa visione il definirci così, persone, basterebbe per situarci nel mondo in modo automatico e indolore, senza discriminazioni. È la realtà a smentire chi lo sostiene: spesso usare il generico ‘persona’ è un modo per sfuggire all’ingombrante verità che l’avere un corpo maschile o uno femminile non è indifferente, in ogni società, visione culturale e ceto sociale.

Essere persone non basta per essere degne di memoria, diritti, cittadinanza, libertà.
Al contrario è basilare e vincolante il sesso che ti capita alla nascita, per stabilire il proprio posto nella scala gerarchica colletti…

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.

Il lavoro invisibile delle donne

Se le condizioni del lavoro sono complessivamente peggiorate per tutti negli ultimi decenni in Italia, il lavoro delle donne è stato nettamente il più penalizzato. Costrette dalla maternità (effettiva o potenziale) a scelte sacrificate e di povertà, molte percepiscono un reddito inferiore rispetto a quello maschile, sono precarie, e spesso invisibili.