Aborto: diritto alla salute o diritto all’autodeterminazione? Dalla pandemia alle proposte per una nuova legge

Da 43 anni la 194 è costantemente sotto attacco e l’emergenza sanitaria ha acuito le difficoltà di accesso all’interruzione volontaria di gravidanza. È tempo di discutere una nuova legge, non più ipocrita e stigmatizzante, che riconosca il pieno diritto di cittadinanza per tutte le donne.

La pandemia SARS CoV-2 è stata un significativo banco di prova per i sistemi sanitari pubblici, rendendo più evidenti ed esacerbando non solo le differenze tra i vari paesi, ma anche tra le varie regioni all’interno degli stessi paesi. In particolare, essa ha avuto, e ha tuttora, un notevole impatto sulla salute e sui diritti riproduttivi: le misure prese per contenere il contagio, quali la riorganizzazione delle strutture ospedaliere, la chiusura di alcuni centri, il lockdown e il blocco degli spostamenti, hanno complicato e in alcuni casi fortemente limitato la possibilità di accesso all’interruzione volontaria della gravidanza (Moreau C, et al: BMJ Sex Reprod Health, 2020; 0: 1-8). Come sempre avviene nei periodi di crisi, l’emergenza sanitaria è stata utilizzata come pretesto per limitare e per mettere in discussione il diritto all’aborto: l’Ungheria di Orban ha vietato la procedura chirurgica (l’unica possibile in quel paese) definendola non indispensabile per salvare la vita delle persone, e, fra gli altri, nel nostro paese l’associazione Pro-vita e Famiglia ha indirizzato una petizione al Ministro della Salute Speranza, chiedendo di bloccare gli aborti, in quanto procedure non indispensabili né urgenti.

Sebbene, con la Circolare n. 8076 del 30 marzo 2020, il Ministero della Salute abbia chiarito che le interruzioni volontarie di gravidanza sono urgenze non procrastinabili, in assenza di indicazioni chiare, alcuni centri IVG sono stati chiusi; inoltre, nella stragrande maggioranza delle regioni italiane l’ostinazione a mantenere l’obbligo del ricovero ordinario per l’aborto farmacologico ha paradossalmente reso meno accessibile una procedura che negli altri paesi veniva privilegiata perché, essendo eseguita “at home” o in telemedicina, evita l’ospedalizzazione e comporta un minor rischio di contagio. Addirittura, nel giugno 2020 la Regione Umbria ha approvato una delibera, inserita nelle “Linee di indirizzo per le attività sanitarie nella Fase 3” dell’emergenza Coronavirus, nella quale incomprensibilmente si aboliva la possibilità di ricovero in Day Hospital per la IVG farmacologica, ripristinando l’obbligo di ricovero ordinario, che avrebbe costretto le donne a una degenza di almeno 3 giorni in ospedale (delibera annullata nel dicembre 2020).

Di fronte alle crescenti difficoltà di accesso all’aborto, alcune donne si sono viste costrette a portare avanti gravidanze indesiderate, subendo le maternità non volute come destini immodificabili; in un articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Nature (Foster DG, Nature, Nov 2021, Vol 599: 349) la ricercatrice Diana Greene Foster, autrice del “Turnaway Study”, è tornata a sottolineare come questo comporti gravi conseguenze per la salute, non soltanto delle donne, ma anche dei loro figli (Foster DG et al, The Journal Of Pediatrics, Feb 2019, Vol 205: 183-189).

Per altre, la scelta è stata quella dell’aborto clandestino. Secondo un articolo recentemente pubblicato sul British Medical Journal (Brandel K et al, BMJ Sex Reprod Health 2021; 0:1–7), da marzo 2019 a novembre 2020, in piena pandemia, 778 donne italiane si sono rivolte all’organizzazione Women on Web per ottenere i farmaci per l’aborto.

È difficile fare una stima degli aborti clandestini, soprattutto se si utilizzano indicatori che oggi sono decisamente poco realistici: il citato studio del BMJ ci fa infatti riflettere ancora su come il fenomeno abbia profondamente cambiato volto, almeno negli ultimi quindici anni, e su quanto poco senso abbia cercare di registrarlo sulla base delle possibili complicazioni, come avveniva per le procedure chirurgiche, ormai praticamente abbandonate e soppiantate dall’uso di farmaci.

In questa ottica, …

Autonomia differenziata, fermiamola ora o sarà troppo tardi

L’Autonomia Differenziata è un progetto politico che lede la natura della Repubblica Italiana, sancita dalla Costituzione come “una e indivisibile”, foriero non solo di inammissibili disuguaglianze ma anche di inefficienze. Contro di essa si sono espressi costituzionalisti, istituzioni, soggetti politici, sociali ed economici, fino ad arrivare alla Commissione Europea. Eppure il governo procede a spron battuto nel volerla attuare, mostrando i muscoli e tappandosi le orecchie. Contro questo scellerato agire a senso unico bisogna agire ora, altrimenti – considerando il criterio della decennalità – sarà davvero troppo tardi.

Regionalismo differenziato o centralismo diffuso? L’autonomia differenziata punta a demolire il Parlamento

La legge sull’autonomia differenziata rischia di diventare una utile stampella al premierato, di rafforzare, più che il regionalismo differenziato, un “centralismo diffuso” che consente al Presidente del Consiglio di negoziare con le singole regioni, esautorando totalmente il Parlamento dalle sue funzioni; e, con esso, svuotare di sostanza la Repubblica democratica.

La guerra contro lo Stato condotta dal liberismo della “sussidiarietà”

Pubblichiamo un estratto del libro di Francesco Pallante “Spezzare l’Italia”, Giulio Einaudi Editore, 2024. In questo volume, il costituzionalista argomenta in profondità le ragioni di una battaglia per fermare il disegno eversivo dell’autonomia differenziata, il quale, come spiega nel capitolo di seguito, trae origine anche dalla visione, intrisa di liberismo e populismo al tempo stesso, tale per cui lo Stato sia automaticamente un “male necessario” e le istituzioni “più vicine ai cittadini” consentano un beneficio. Una visione che nega alla radice la politica, vale a dire l’opera di mediazione e sintesi che è in grado di tenere insieme la società.