2021: per le donne, quale bilancio?

Violenza di genere, disoccupazione, diritto all’aborto: il punto su un anno acceso di battaglie che segnano per tutte le donne d’Italia e del mondo la lunga strada verso la parità.

Il fronte più caldo per le donne d’Italia e del mondo è probabilmente quello della violenza di genere. Il conto dei femminicidi in questa metà di dicembre è arrivato a 109, ancora abusi e stupri in cronaca, il dibattito pubblico che si interroga sulla necessità di vagoni ferroviari dove gli uomini non abbiano accesso, come zone franche, e un disegno di legge.

Il testo ha riunito attorno allo stesso tavolo le Ministre Bonetti (Pari opportunità e famiglia), Lamorgese (Interno), Cartabia (Giustizia), Gelmini (Affari regionali e Autonomie), Carfagna (Sud e Coesione territoriale), Dadone (Politiche giovanili), Stefani (Disabilità) e Messa (Università e Ricerca): undici articoli, per rafforzare prevenzione e contrasto. Modifiche al codice penale, al codice di rito a quello delle leggi antimafia, compongono il quadro. Al netto di un inasprimento delle pene – riposta prediletta della politica tutte le volte in cui la questione si fa rovente – il provvedimento che deve ancora passare all’esame del Parlamento preannuncia tra l’altro una stretta sugli oneri processuali di informazione, a tutela della parte offesa, e una non meglio identificata forma di vigilanza dinamica. Il governo pare aver immaginato una sorta di scorta depotenziata, da assegnare alle vittime di violenza, in presenza di alcuni elementi da cui far discendere la deduzione di una situazione di pericolo “concreto”.

Basta tuttavia incrociare i numeri di quei reati con la scarsità delle risorse pubbliche su cui le forze dell’ordine possono contare, per comprendere come – verosimilmente – anche quella vigilanza farà presto a dimostrarsi impraticabile. Il timore è che molte aspettative rimangano deluse, certo non sarebbe neanche una novità. L’osservazione lo dice: le donne che hanno paura si convincono dell’inutilità della denuncia. Il fenomeno rimane sommerso e la punta dell’iceberg lascia intravedere un abisso che non riusciamo, in alcun modo, a contenere.

L’approccio, a sentire le addette ai lavori, continua a non essere quello corretto.

Non riusciamo a superare l’ottica emergenziale nella quale continuiamo a muoverci, con risultati che sono, purtroppo, sotto gli occhi di tutti. Antonella Veltri è la presidente di D.i.Re, le sue parole come pietre: “Il governo procede senza minimamente consultare i centri antiviolenza, nonostante da decenni accompagnino migliaia di donne fuori dalla violenza e nonostante tale consultazione sia stata prevista nel nuovo Piano nazionale antiviolenza”.

La riposta, allora, qual è? Non esiste una ricetta magica: questa evidenza potrebbe anche servire da sprone.

I centri antiviolenza, del resto, la situazione la conoscono bene: le operatrici che prendono in carico le vittime e i loro figli fanno i conti, ogni giorno, con l’inadeguatezza del sistema. Più di tutto vanno a sbattere contro le difficoltà – talvolta insuperabili – di riconsegnare a quelle donne autonomia e indipendenza, in assenza di un reddito è pressoché impossibile garantire loro l’accesso a una reale condizione di libertà.

È chiaro allora come non possa bastare un inasprimento di pene per chi delinque, perché servono soluzioni che intanto rimettano le donne in condizione di ricominciare da capo.

Il primo ostacolo è la disoccupazione

È sull’occupazione femminile che dovremmo, forse, concentrare maggiormente i nostri sforzi. In Italia tra le conseguenze del Covid vi è una ricaduta gravissima che, specie nel Sud del Paese, raggiunge livelli tra i più preoccupanti d’Europa. I dati sono quelli del 2020, diffusi dal MEF: la mancata partecipazione delle donne al mercato del lavoro si attesta sul 22,7%, ma nel Meridione arriva addirittura al 41%, contro il 16% degli uomini.

Se la fine dell’anno, dunque, è tempo di riflessioni e di conti, uno sguardo al

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.

Il lavoro invisibile delle donne

Se le condizioni del lavoro sono complessivamente peggiorate per tutti negli ultimi decenni in Italia, il lavoro delle donne è stato nettamente il più penalizzato. Costrette dalla maternità (effettiva o potenziale) a scelte sacrificate e di povertà, molte percepiscono un reddito inferiore rispetto a quello maschile, sono precarie, e spesso invisibili.