Bosnia-Erzegovina: lo scheletro di una nazione

La nazione dei gigli è il simulacro di uno Stato. Frazionata e polarizzata, è una realtà immersa in una perenne fase di tregua che non è mai maturata in pace. Una riflessione sulla crisi istituzionale bosniaca e le responsabilità della realpolitik occidentale.

Una morte annunciata

Che la Bosnia-Erzegovina dovesse rappresentare il patibolo sul quale si sarebbero scontrati i flussi dei nazionalismi jugoslavi lo si era capito già da tempo. Prima ancora che i paramilitari di Arkan inaugurassero il conflitto con i massacri di Bijeljina e che il ponte di Vrbanja diventasse il vessillo dell’assedio di Sarajevo. Era percettibile almeno dal febbraio del 1992, da quando nei corridoi della diplomazia internazionale si stava lavorando per rendere la nazione dei gigli un paradosso giuridico: il simulacro di uno Stato.

Come precedentemente sperimentato in Croazia, anche per la Bosnia la Comunità internazionale adottò un regime di equidistanza tra i belligeranti, configurando il conflitto come una guerra civile anziché come una guerra d’aggressione e così, formalmente, disimpegnandosi da ogni vincolo. D’altronde, il copione da seguire era già stato adottato con la Risoluzione Onu 724 – il cosiddetto piano Cyrus Vance – del gennaio ‘92: premiare le logiche spartitorie e gestire il conflitto da lontano. Il messaggio che si voleva diffondere era lampante: in Bosnia non c’era una parte aggredita ma solo aggressori. Tutti egualmente colpevoli ed egualmente punibili: nessuna differenza, insomma, tra le popolazioni assediate e i militari assedianti. Il timore di rimanere coinvolti in conflitto trasversale, stratificato e dagli esiti imprevedibili prevalse tra le cancellerie occidentali ancora inscritte nel paradigma interpretativo della Guerra Fredda. Nettamente più semplice archiviare la questione bosniaca in una primitiva e tribale confusione balcanica che investire frontalmente il problema dei rinati movimenti nazionalisti.

Piano Josè Cutileiro

In ordine di tempo, il primo progetto di pace presentato per raffreddare il calderone bosniaco fu il lavoro del gruppo guidato dal ministro degli Esteri portoghese Josè Cutileiro, nell’ambito della Conferenza sull’ex Jugoslavia condotta da Lord Carrington. Il piano Cutileiro, che prese forma cartografica il 23 febbraio, era semplicistico quanto impraticabile: proponeva una Bosnia divisa su base cantonale pur mantenendo ufficialmente l’inviolabilità dei confini nazionali. La spartizione territoriale contemplava la creazione di due cantoni per i tre popoli costituenti: il 56,27% dello Stato sarebbe andato alle comunità bosgnacca e croato-bosniaca e il rimanente a quella serbo-bosniaca. Il progetto ebbe una vita breve, e nell’arco di pochi giorni tutte le parti lo rigettarono imprimendo una decisiva svolta verso la guerra. I serbi-bosniaci, guidati dal Partito Democratico Serbo (SDS) di Radovan Karadžić, rivendicarono il 60% della nazione, ovvero lo spazio util…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.