Il Concilio Vaticano II sessant’anni dopo: un bilancio deludente

Nel sessantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, contro l’esaltazione sistematica e acritica di questa assemblea e dei suoi risultati, è tempo di avanzare qualche dubbio sulla possibilità che esso oggi possa ancora costituire un fattore di spinta verso il rinnovamento della Chiesa.

In questi giorni ricorre il sessantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II. Come avviene sempre in relazione a questo evento, verremo sommersi da una marea di articoli, rievocazioni, instant book, volumi densi di scienza che scandagliano ogni singolo istante del grande evento ecclesiale.

Prima di entrare nel merito dei miei argomenti, una premessa è doverosa: non sono né un teologo né uno storico, non sono quindi in grado di addentrarmi in modo competente in un dibattito specialistico che impegna molti studiosi cultori di queste due discipline da decenni, probabilmente dal momento stesso in cui il Concilio è stato indetto.

Queste pagine nascono piuttosto da un sentimento di fastidio (e di noia) che uno studioso di cose cattoliche (non uno studioso del Concilio) come me avverte di fronte all’aura di assoluta intangibilità che circonda il Vaticano II, all’esaltazione sistematica e romantica, alla costante santificazione acritica che di questa assemblea e dei risultati che ha conseguito viene compiuta in ogni occasione possibile e da persone di tutti i tipi, di ogni tendenza culturale.

Vorrei insomma avanzare qualche dubbio, sperando di poter contribuire in modo costruttivo al dibattito.

I dubbi riguardano soprattutto quella che potremmo definire, ricordando Berlinguer, la “spinta propulsiva del Concilio Vaticano II”, la possibilità che esso possa ancora costituire, nel 2022, un fattore di spinta verso il cambiamento e il rinnovamento della Chiesa. A me questa eventualità pare piuttosto improbabile. Il Concilio mi sembra infatti essere stato, nel bene e nel male, completamente “metabolizzato” all’interno della Chiesa. Persino i nostalgici seguaci (alla fine quattro gatti) delle preconciliari messe in latino si accontentano di prosperare nelle loro cappelle semideserte, avendo smesso da tempo di puntare a improbabili ribaltoni e di sognare un ritorno al passato dell’intera comunità ecclesiale. Del Concilio si dichiarano eredi legittimi tutti gli altri e cioè la quasi totalità della comunità ecclesiale, dai nipotini dei super conservatori Woytila e Ratzinger ai tifosi più scatenati …

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.