La marcia su Roma tra mito e realtà. Intervista a Francesco Filippi

“La marcia dei fascisti su Roma fu tutt’altro che eroica, mitica e irresistibile”. Nel centenario di uno dei più importanti e tragici avvenimenti della storia italiana, lo storico Francesco Filippi ci aiuta a comprenderne il reale significato storico e politico.

Cade in questi giorni il centenario di uno dei più importanti e tragici avvenimenti della storia italiana: la marcia dei fascisti su Roma (26 – 28 ottobre 1922) e la successiva presa del potere da parte di Benito Mussolini. Per ricordare quel che accadde e cercare di comprenderne il reale significato storico e politico, ne parliamo con lo storico Francesco Filippi, esperto di fascismo e autore, tra gli altri, del saggio bestseller “Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo” (Bollati Boringhieri, 2019).

Filippi, proviamo innanzitutto a ricostruire i fatti. Che cosa fu la marcia su Roma?

Il dato storico in sé è abbastanza lineare. Nell’autunno del 1922, in seguito a una serie di tensioni di carattere sociale e soprattutto politico che attanagliavano l’ambito pubblico e politico italiano, un partito che allora non era riuscito a imporsi nelle urne e che, anzi, sembrava avviato a una lenta normalizzazione all’interno dell’attività parlamentare, il Partito Nazionale Fascista, decide di giocare il tutto per tutto e scommette sulla non reattività dell’establishment politico, militare ed economico di Roma a una forzatura nella presa del potere. Su questi presupposti, su questa presunta debolezza della classe politica liberale, nascono i primordi di quella che poi passerà alla storia come la marcia su Roma. In realtà è qualcosa di molto raffazzonato, organizzato in maniera pressapochistica. Chiunque oggi legga un testo di storia che parla di quei giorni rimarrà stupito che uno dei momenti più importanti e tragici della storia di questo Paese in realtà sia anche frutto di una serie di casualità e di impreparazioni, quando non di un vero e proprio dolo. Nella notte tra il 27 e 28 ottobre del 1922 si concentrano le forze fasciste e vicine a Mussolini, che invece rimane lontano dalle operazioni, e cominciano le cosiddette marce di avvicinamento a Roma. La situazione sembra essere gestibile dal governo Facta allora in carica, il quale presenta al re un piano per resistere a questa banda sostanzialmente di scappati di casa. Con la firma dello stato d’assedio, quindi la messa sotto controllo dell’esercito delle vie di accesso a Roma, il governo appare intenzionato a gestire la prova di forza, mettendo sul piatto quella che è l’effettiva forza dello Stato. E qui appare la prima stranezza di questo momento.

Che cosa succede?

Sembra che la Corona e il Re siano d’accordo con la scelta del governo, ma poi arriva la notizia che il Re non firmerà lo stato d’assedio, quindi da parte dell’esercito che presidia la capitale non ci sarà opposizione ai fascisti. Non vengono fermati i treni che accompagnano i fascisti a Roma e quello che poteva essere semplicemente un atto dimostrativo di forza che finiva in nulla o con uno scontro armato tra esercito e fascisti, si trasforma nel trionfo di Benito Mussolini. Non solo i fascisti vengono accolti a Roma, ma addirittura il Re accetta di vederli sfilare. Mussolini prende il sopravvento e viene nominato presidente del Consiglio e da quel momento sarà l’ago della bilancia della politica italiana. Mi preme sottolineare una cosa: la marcia su Roma è molto più un mito che un fatto. Se andiamo a vedere i numeri non particolarmente abbondanti e le circostanze fortuite, la marcia su Roma è tutt’altro che eroica, mitica e irresistibile. Quello che noi oggi viviamo…

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

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