Shatila, luci dall’inferno

Il campo profughi di Shatila è sorto nel 1949, all’indomani della Nakba. Ci hanno vissuto intere generazioni di palestinesi: una prigione per vittime innocenti, infernale ma, come sempre con le cose umane, non priva della sua bellezza e persino della sua felicità. Un viaggio sentimentale dentro il campo attraverso i suoi abitanti e le loro storie.
Shatila

Pensi di entrare all’inferno e di trovarci i dannati. Ma la verità, come per tutte le cose degli uomini, è ostinatamente più complessa, e profonda.
L’ingresso del campo profughi di Shatila non è un cancello, una sbarra, un cartello. È immettersi in un vicolo, subito dopo un chiosco del caffè con tre tavolini. E certo, inferno lo è, per molti aspetti. Ma come ci ricorda Dante, l’inferno è la possibilità di un mondo. Popolato di giusti, storti, disperati, innamorati, malavitosi, orfani, vedove e figli di tutta la pletora sempre più ingombrante di minori del Medio Oriente in guerra, invaso, cacciato, terremotato, senza terra. Così nel 2023, a Shatila, uno dei dodici campi profughi presenti in Libano, convivono con tolleranza e simpatia, oppure con odio e fatica: palestinesi, siriani, libanesi, sudanesi, indiani, bengalesi, pakistani, miliziani di Amal eccetera.
Il campo, com’è noto, fu istituito nel 1949 dalla Croce Rossa Internazionale per ospitare rifugiati provenienti dai villaggi di Majed al-Kroum, al-Yajour e Amka, nel nord della Palestina. Lavoro non ce n’è, anche se alcuni uomini gestiscono negozi, parrucchieri, piccoli caffè, alimentari, mentre le donne, coloro che riescono, lavorano come addette alle pulizie.
È inferno laddove le condizioni ambientali e sanitarie risultano drammatiche. I rifugi sono umidi, a volte maleodoranti, piccolissimi, sovraffollati, spesso gli scarichi sono all’aperto.
Anche se è in corso un lavoro per migliorare la rete fognaria, idrica, e la gestione dell’acqua piovana. È inferno laddove i diritti fondamentali sono inesistenti. Perché in Libano per i profughi palestinesi la scuola, la sanità e il lavoro non sono diritti. Non sono nulla. E delle esigenze sanitarie e scolastiche, ad esempio, se ne occupano, con lavoro costante e a volte ottimi risultati – ma comunque limitati- diverse ONG, libanesi ma anche internazionali. È inferno laddove si tenga a mente che vivere in un campo profughi è assenza quasi totale di libertà. È inferno l’asfissia di non potere immaginare un futuro. È inferno perché vivere senza una visione del futuro nei propri pensieri, tra vicoli stretti e migliaia di cavi elettrici intrecciati e pericolosi, in un recinto istituito per uomini donne e bambini che non hanno più una terra, o non l’hanno mai avuta perché in quel recinto vi sono nati, è claustrofobico, inconcepibile, catastrofico.

Allora mi sono chiesto, mentre camminavo per Shatila ma ancor più nelle ore e nei giorni successivi, come sia possibile, per chi può prendere un aereo o essere ricoverato in un ospedale, comprare un libro o visitare un museo o andare allo stadio, comprendere vittime prigioniere, ossimoro vivente di chi subisce le conseguenze della Storia e di una geografia violata, e che per questo vive qua dentro. Mi sono chiesto quanto malinconico e opprimente dev’essere andare a letto pensando che i sogni con cui tutti ci trastulliamo prima di prendere sonno siano soltanto fiori senz’acqua. Mentre nella nuda notte del cam…

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.

Il lavoro invisibile delle donne

Se le condizioni del lavoro sono complessivamente peggiorate per tutti negli ultimi decenni in Italia, il lavoro delle donne è stato nettamente il più penalizzato. Costrette dalla maternità (effettiva o potenziale) a scelte sacrificate e di povertà, molte percepiscono un reddito inferiore rispetto a quello maschile, sono precarie, e spesso invisibili.