Aotearoa: diario di un viaggio imperfetto nella terra dei maori

Un antropologo, come chiunque, comincia un viaggio smarrendosi, per poi, poco a poco, ritrovarsi. Questo diario imperfetto di un viaggio solitario in Nuova Zelanda che è innanzitutto Aotearoa, la terra dei maori, racconta di incontri e dialoghi, fra uno studioso e tanti artisti, alla scoperta delle tracce di resistenza e sopravvivenza di un popolo che fu sottomesso e che ancora oggi subisce tutto il veleno della mentalità coloniale e dei suoi poteri concreti.

Aotearoa, “questa nuvola bianca sul mare” secondo i maori, orrendamente chiamata Nuova Zelanda da europei privi di fantasia: nell’emisfero australe, più in giù c’è solo l’Antartide. Oggi un tiepido sole caccia via l’umidità e la pioggia che accompagna l’estate. Auckland è una città capitale costruita su una serie innumerevole di piccoli vulcani trasformati in collinette verdi. Grandi alberi, immense foglie, nuvole di vapore, il verde sembra una grande insalata. Un’architettura vittoriana molto umiliata da un ipermodernismo già vecchio di grattacieli pre-pandemici, singulti da waterfront ambiziosa con yacht di superricchi. Il paesaggio intorno – sorge tra due porti naturali – potrebbe essere mozzafiato, ma la città è molto chiusa in sé, sembra una località californiana con residui di hippies e di middle class. Se non ci fossero le tracce del passato e presente in questa che è innanzitutto terra dei maori, sarebbe un luogo piuttosto anonimo e tagliato fuori dal mondo.

In più è estate, piove, le spiagge sono in questo periodo fangose, la bellezza da arcipelago bisogna andarla a cercare sottraendosi alla noia cittadina. C’è un campus universitario in pieno centro, e una Chinatown che la sera si popola di una grande quantità di studenti asiatici. Qui, come altrove, sembrano gli unici a divertirsi, a essere una chiassosa comunità che fa movida, moda, consuma e sta per i fatti propri, mangiando cibo coreano, giocando a poker in appositi bar, fotografandosi con indosso i costumi da cosplayer. Un’impressione che si ha viaggiando in molti posti sul Pacifico, California per prima, come se i giovani asiatici sapessero bene di essere più avanti, di essere il presente.

Però questa è terra maori, sottratta ai nativi che vivevano in tutta Aotearoa in molte tribù, spesso in guerra tra loro ma nell’insieme in un grande confluenza di lingue, ritualità, rapporto con gli elementi naturali. Alla fine del Seicento si affacciarono gli europei, arrivò James Cook e poco dopo il braccio armato delle scoperte. I maori, che era giunti probabilmente dal nord mille anni prima, attraversando il Pacifico con competenza da viaggiatori, nomadi del mare –le grandi canoe, la conoscenza di astri, correnti, venti –, vengono travolti dai colonizzatori con la loro strana logica: invece di cercare alleanze, di utilizzare la conoscenza locale per tirare fuori il meglio da queste terre, gli europei cercarono di piantare il segno della dominazione su tutto, preferendo schiavi ad alleati. E trasformarono questo luogo in un classico inferno coloniale, con massacri, utilizzarono i conflitti intertribali per espropriare i nativi, diffusero i “moschetti” che trasformarono le guerre intertribali, molto ritualizzate, in guerra come solo gli europei la conoscono. Gli ultimi scontri di resistenza saranno alla fine dell’Ottocento. Arriverà la civiltà britannica con la sua noia, il suo protestantesimo, i suoi orpelli e la sua incapacità di capire come utilizzare un Paese senza distruggerlo. E lo faranno con l’eleganza inglese della Common Law, stipulando armistizi e trattati che verranno sistematicamente elusi e infranti. I maori erano dignitosi guerrieri, pescatori di balene, donne esperte di medicina, clan di artisti con una estetica complessa ed efficace, costruttori di splendide case comuni intagliate con una complessa simmetria di antenati e minacciose divinità – le marae erano e sono luoghi sacri di riunione -,  e soprattutto portatori di una civiltà locale estremamente elaborata. Un pittore boemo, Gottfried Landauer, realizza, prima che tutto svanisca, una serie di ritratti dell’orgoglio maori, donne e uomini con tatuaggi eleganti, lo sguardo altero, in mano lo scettro di giada. Nel giro di cinquant’anni saranno ridotti a poveracci ed elemosinanti.

Un libro di Alan Duff e un film del neozeandese Lee Tamahori negli anni Novanta racconta il loro dramma: “Once were warriors”, i nativi ridotti a dropout nelle tenderloin delle città, nei suoi bassifondi. Negli ultimi decenni c’è stata una ripresa dell’identità, la richiesta di rivedere il senso del trattato di Waitangi che avrebbe teoricamente dato nel 1860 l’autonomia ai nativi. In realtà, mi raccontano i miei ospiti che sono cresciuti qui come pakeha, bianchi immigrati, a scuola i nativi vengono ancora sistematicamente umiliati, il razzismo ribadisce le gerarchie coloniali. I maori vivono oggi in gran parte in città, molti di loro hanno perduto la connessione o la memoria della loro appartenenza a un dato territorio. Però i nomi dei luoghi, la lingua, e soprattutto l’idea di un futuro indigeno creano una differenza. Molti maori diventano avvocati perché è sul piano legale che la loro identità deve affermarsi. La questione è qui simile a quella di altri

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