Lo Stato neoliberale e l’equilibrio perduto tra democrazia e capitalismo

Unica ideologia sopravvissuta al Novecento, il neoliberalismo teorizza un interventismo statale finalizzato a rendere il capitalismo storicamente possibile. Una riflessione a partire dal saggio “Ordoliberalismo” di Adelino Zanini (Il Mulino).

Neoliberalismo e neoliberalismi

Sul finire degli anni Trenta la ricerca di una terza via tra laissez faire e collettivismo, ovvero tra l’idea secondo cui il mercato è un ordine spontaneo e la volontà di superarlo a favore di altri strumenti di redistribuzione della ricchezza, conduce a teorizzare un nuovo modo di concepire il rapporto tra lo Stato e l’ordine economico. Nasce così il neoliberalismo come dottrina concernente i termini di un intervento dei pubblici poteri, nella misura necessaria e sufficiente a presidiare l’ordine economico. Se il laissez faire credeva nella capacità della mano invisibile di assicurare il funzionamento della concorrenza, e il collettivismo nella necessità di rimpiazzare la concorrenza con la pianificazione, il neoliberalismo puntava più semplicemente a imporre la concorrenza: ad affidare ai pubblici poteri il compito di renderla un punto di riferimento per la conformazione del comportamento dei consociati.

Questo è in sintesi l’esito di un celebre incontro tenutosi a Parigi nel 1938: il colloquio Walter Lippmann, a cui presero parte noti esponenti del liberalismo convinti che l’ordine economico incentrato sul libero incontro di domanda e offerta avesse ampiamente dimostrato di non potersi affermare autonomamente[1]. L’interventismo neoliberale doveva però avere carattere giuridico e non anche amministrativo, ricalcare cioè uno schema tecnocratico e non politico, ed esprimersi con l’emanazione di leggi dello Stato chiamate a rispettare e anzi a riprodurre le leggi del mercato. Di qui la richiesta di concentrare il potere politico e dunque di edificare uno «Stato forte e indipendente» cui attribuire compiti di «severa polizia del mercato»[2]: per polverizzare il potere economico e condannare così gli individui a tenere i soli comportamenti descrivibili in termini di reazioni automatiche agli stimoli del mercato. A queste condizioni l’inclusione sociale si sarebbe potuta ridurre a inclusione nel mercato, finalmente presidiato nella sua essenza di strumento per una efficiente allocazione delle risorse.

Nello stesso periodo in cui si tenne il Colloquio Walter Lippmann, un gruppo di giuristi ed economisti tedeschi gettò le basi teoriche dell’ordoliberalismo, che i più mirano a distinguere dalla corrente del neoliberalismo cui fanno capo personalità come Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek: la Scuola austriaca[3]. A ben vedere le differenze cui si fa riferimento, così come altre nel variegato mondo neoliberale, riguardano aspetti quantitativi ma non anche qualitativi di un fenomeno fondamentalmente unitario. Attengono invero all’individuazione delle misure che lo Stato deve di volta in volta adottare al fine di rendere il capitalismo storicamente possibile. Rispecchiano cioè il livello di ingerenza nell’ordine economico richiesto dal contesto in cui operano i pubblici poteri: non definibile a priori attraverso un catalogo insensibile al trascorrere del tempo o alla collocazione spaziale dell’esperienza di volta in volta presa in considerazione.

L’approccio…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.