“Se succede oggi in Iran, succederà domani in Afghanistan”

“La lotta del popolo iraniano è la nostra lotta”. La testimonianza di Mariam Rawi – rivoluzionaria afghana dell’associazione RAWA – racconta la vita e la ribellione delle donne afghane da quando i talebani hanno ripreso il potere a Kabul: “Le donne, anche sotto la legge della Sharia, non accettano di essere private dei diritti umani fondamentali”.

Mariam Rawi, rivoluzionaria afghana, parte di RAWA: Revolutionary Association of the Women of Aghanistan. Ha trascorso l’autunno fra l’Italia, la Germania e la Francia, invitata dalle reti di organizzazioni sorelle, per raccontare la lotta e la vita delle donne afghane da quando i talebani hanno ripreso il potere sul territorio. Mariam non è il suo vero nome, e per motivi di sicurezza, per parlare con lei bisogna accettare di non divulgarne mai le sembianze. RAWA è infatti un’organizzazione illegale in Afghanistan da quando è nata, nel 1977. In tutti questi anni, ha lavorato per migliorare le condizioni di donne, bambine e bambini sfidando i regimi e le guerre che si sono via via susseguiti sul territorio. La loro lotta prosegue oggi con più convinzione che mai.

In questi giorni mi trovo in Europa, per rappresentare RAWA. Da molti anni, RAWA viene regolarmente invitata dal gruppo di organizzazioni che la sostengono, come il CISDA qui in Italia, e talvolta partecipa a incontri e conferenze. Anche questa volta c’è stata una serie di incontri, non solo in Italia ma anche in Francia e in Germania. Il mio compito, in questi interventi pubblici, è portare la voce delle donne afghane. La maggior parte delle persone non sa cosa sta succedendo in Afghanistan. Non hanno informazioni sufficienti, né affidabili. Quando parlano del nostro Paese, i media occidentali lo fanno quasi solo per assecondare le politiche dei loro Governi: le idee che le persone si fanno sull’Afghanistan vengono in questo modo orientate dagli interessi dei Governi. Ecco perché la presenza di una persona che arriva direttamente dal Paese, e poi tornerà indietro per continuare il suo lavoro, è qualcosa di diverso. Soprattutto, il mio scopo non è parlare solo della situazione drammatica: alcuni in Europa credono che l’unico messaggio che possiamo portare dall’Afghanistan siano le miserie, i dolori e le tragedie. No. Nei miei interventi, la priorità è raccontare la resistenza delle donne, le attività delle donne, tutto ciò che realizza l’organizzazione con cui lavoro. E in più, la protesta delle donne: che è in corso in questo momento in diversi luoghi del Paese.

Una nuova generazione di donne ribelli

Fin dai primi giorni dell’ultimo arrivo dei talebani, l’anno scorso, in Afghanistan è iniziata una nuova fase di proteste. E non solo a Kabul, la capitale, ma in diverse città delle principali province. Sono iniziate scrivendo slogan sui muri, la stessa notte in cui sono arrivati i talebani, per poi organizzare e mobilitare un gran numero di donne, portandole in strada a chiedere il diritto all’istruzione e il diritto al lavoro. Lo slogan principale era “istruzione, lavoro e libertà”. Le manifestanti sono state attaccate diverse volte. C’è una lunga lista di attiviste e giornaliste che ha subito la repressione in diverse proteste. Alcune sono state arrestate, altre uccise, altre sono scomparse. A Mazar, una provincia del nord dell’Afghanistan, un gruppo di sei giovani attiviste è scomparso. Solo in seguito i loro corpi sono stati ritrovati: erano state viol…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.