Rosa Luxemburg fra rivoluzione e guerra

Pubblichiamo la seconda parte di un lungo saggio sul pensiero e il ruolo della rivoluzionaria polacca, figura unica nel movimento rivoluzionario internazionale del ‘900; il suo lascito ancora oggi rimane largamente al di qua del valore, teorico, politico e umano della persona. Qui l’autore esamina la sua posizione contro la guerra e la critica radicale che Rosa Luxemburg ebbe il coraggio di rivolgere a Lenin, riguardo allo svolgimento della rivoluzione russa e particolarmente allo strame della democrazia che ne stavano facendo i bolscevichi.

Il voto sui crediti e la rivoluzione tedesca
(Segue dalla prima parte) Con lo scoppio della guerra, Rosa Luxemburg fece di nuovo i conti con la propria solitudine nel suo stesso partito. Per molti anni negli ambienti socialisti tedeschi, la data del 4 agosto 1914 ha evocato una vicenda molto precisa: non la dichiarazione di guerra della Germania alle forze dell’Intesa, ma il voto favorevole della sinistra socialdemocratica all’interno del Reichstag sui crediti di guerra. Per motivare quel voto qualcuno disse che non si poteva fare diversamente, che quando il nemico ha messo un piede nel tuo territorio, ti riesce difficile fare il pacifista ad oltranza. Il problema è che le cose non stavano esattamente così. La Germania che aveva da poco dato vita alle sue istituzioni democratiche era consapevole di doversi battere contro una Russia ancora zarista, ma dall’altra parte c’erano nazioni come la Francia e l’Inghilterra che la democrazia avevano sperimentato già da un po’. E, d’altronde, a mostrare i muscoli era stato l’impero austro-ungarico; la Germania, del cui governo non erano partecipi i socialdemocratici, si era accodata. Non si trattava dunque di una situazione lontanamente paragonabile a quella che si verifica oggi in Ucraina, dove si può parlare di guerra patriottica: partigiani contro impavidi e folli aggressori.

Ancora il 29 luglio 1914 l’Ufficio dell’Internazionale socialista riunito a Bruxelles invitava “i proletari di tutte le nazioni interessate non solo a proseguire, ma anche ad intensificare le dimostrazioni contro la guerra”. Ma dopo appena una settimana la situazione era drammatica.

“Da un lato c’era il timore di isolarsi dalle masse; la vecchia paura di Bebel di fronte alla prospettiva di una onnipotente dittatura militare (…); a ciò si aggiungeva la comprensione del fatto che, in caso di guerra, il partito sarebbe stato del tutto impotente. (…) Dall’altro lato c’era la lunga tradizione di isolamento, che dal tempo della vittoria sui revisionisti era la forma di vita riconosciuta del partito. Nella sua situazione di bisogno la società allungò una mano, e la socialdemocrazia l’afferrò”[1]. Per lo storico PeterJ. Nettl “l’approvazione dei crediti di guerra era la conclusione di un lungo processo, non il suo inizio; una conseguenza logica di atti precedenti, non uno smarrimento momentaneo. Ma ai contemporanei la realtà appariva diversa”[2]. Molti, a cominciare da Lenin, si attendevano ben altri appelli alla mobilitazione, ma questi appelli non arrivarono. Luxemburg, in una lettera a Konstantin Zetkin ver…

Il maschilismo dei dati

La gran parte delle decisioni negli ambiti più disparati oggi viene presa a partire dai dati. Dati che però nella stragrande maggioranza riguardano solo ed esclusivamente gli uomini.

Le radici biologiche del linguaggio umano

Studiare da un punto di vista evolutivo il linguaggio umano è un’operazione estremamente complessa poiché, a differenza di altri tratti biologici, dipende da strumenti nervosi e anatomici che non fossilizzano e non lasciano tracce. Ma lo studio del canto degli uccelli ci fornisce un prezioso strumento comparativo per perseguire tale scopo.

La crisi della sinistra e il problema della proprietà

Abbandonando il tema del lavoro, la sinistra si è appiattita su posizioni monetariste e ha rinunciato anche ad affrontare propriamente il tema della proprietà. Riguardo quella pubblica, per allontanarsi dal nazionalismo comunista sovietico, ha osteggiato ogni forma di demanializzazione e nazionalizzazione dei beni e delle produzioni, favorendo privatizzazioni, svendite degli assets economici prioritari a tutto danno del Paese e a favore di grandi potenze multinazionali. Ma la gestione condivisa dei beni collettivi non può essere trasferita alla sfera privata.