La resistenza non violenta in Palestina

Lontano dai gruppi armati che combattono l’occupazione israeliana a colpi di fucile, c’è una società civile palestinese che porta avanti una resistenza non violenta. Sono voci che fanno meno rumore rispetto a Hamas, alla Jihad Islamica, o alla più recente Fossa dei Leoni. Ma le loro iniziative, anche le più piccole, sono gesti politici che migliorano l’esistenza di molte persone in un posto in cui, come dicono molti palestinesi, esistere è resistere: anche solo portare avanti un’esistenza normale nella propria terra vuol dire resistere all’occupazione.
Palestina

L’eco-resistenza

La tenuta di Abou Dia sembra un’oasi in mezzo al deserto. Un lembo di terra incastonato tra una strada trafficata e due popolosi insediamenti israeliani, dove ulivi, mandorli e albicocchi crescono rigogliosi circondati dal silenzio della campagna. “Gli israeliani tagliano gli alberi per costruire insediamenti, noi li ripiantiamo: questa è eco-resistenza,” dice Jawad Zawahra. Con altri volontari e attivisti, Jawad aiuta l’agricoltore palestinese Abou Dia a coltivare i suoi terreni. “Restare sulle nostre terre, e preservare le nostre terre, è una forma di resistenza all’occupazione,” continua Jawad. I terreni di Abou Dia si trovano in una località chiamata Khallet ‘Afana, tra i due insediamenti israeliani di Efrat e Migdal Oz, qualche chilometro a sud di Betlemme. Ci troviamo nell’area C, la parte della Cisgiordania sotto completo controllo militare israeliano. Qui gli insediamenti israeliani, illegali secondo il diritto internazionale, sorgono e si espandono sul suolo palestinese. Abou Dia racconta che il governo israeliano sta cercando in tutti i modi di appropriarsi della sua terra, per connettere tra di loro gli insediamenti circostanti. Gli sono stati proposti assegni in bianco, su cui aggiungere tanti zeri quanti ne desiderasse, con la promessa di potersi trasferire in un qualsiasi altro Paese di sua scelta. Ma Abou Dia ha scelto di restare. L’aiuto di Jawad e di altri volontari è fondamentale: il governo di Israele permette la confisca di terreni se lasciati incolti o apparentemente abbandonati per alcuni anni di seguito. Così da anni i volontari aiutano l’agricoltore a piantare le viti, a raccogliere le olive e le albicocche, e a estirpare le erbacce. L’estate scorsa, a lavorare nei campi di Abou Dia ci sono stati anche alcuni volontari italiani, nel quadro di un progetto in collaborazione con il Servizio Civile Internazionale incentrato sull’eco-resistenza palestinese. “So che quello che facciamo non è molto,” dice Jawad, l’organizzatore del progetto, “ma è anche questo un modo per resistere.” La terra di Abou Dia appartiene alla famiglia dell’agricoltore da generazioni: coltivarla e rifiutarsi di cederla al governo israeliano, nonostante le frequenti aggressioni di coloni e militari, è per lui un modo per preservare la cultura palestinese.

“La protezione dell’ambiente è una questione molto sentita in tutto il mondo” continua Jawad, “eppure nessuno parla mai di come Israele distrugga l’ambiente palestinese, di come sottragga l’acqua agli agricoltori palestinesi e tagli alberi per costruire nuovi insediamenti.” La lotta per le risorse ambientali è un tema centrale del conflitto israelo-palestinese. Sono molti gli agricoltori nella stessa situazione di Abou Dia, e la sottrazione di risorse idriche è un elemento dell’occupazione in molte aree della Cisgiordania, soprattutto nella valle del Giordano dove molti pozzi palestinesi vengono sistematicamente distrutti e il 70% dell’acqua è accaparrato da Israele. Per Abou Dia e Jawad, eco-resistenza vuol dire coltivare le terre in un modo che rispetti l’ambiente e lottare contro il cambiamento climatico. “A volte mi chiedono: perché i palestinesi dovrebbero preoccuparsi del pian…

Israele, la memoria dell’Olocausto usata come arma

La memoria dell’Olocausto, una delle più grandi tragedie dell’umanità, viene spesso strumentalizzata da Israele (e non solo) per garantirsi una sorta di immunità, anche in presenza di violenze atroci come quelle commesse a Gaza nelle ultime settimane. In questo dialogo studiosi dell’Olocausto discutono di come la sua memoria venga impiegata per fini distorti, funzionali alle politiche degli Stati, innanzitutto di quello ebraico. Quattro studiosi ne discutono in un intenso dialogo.

Libano, lo sfollamento forzato e le donne invisibili

La disuguaglianza di genere ha un forte impatto sull’esperienza dello sfollamento di massa seguito alla guerra nel Libano meridionale. Tuttavia, la carenza di dati differenziati rischia di minare l’adeguatezza degli aiuti forniti e di rendere ancora più invisibile la condizione delle donne, che in condizioni di fuga dalla guerra sono invece notoriamente le più colpite dalla violenza e dalla fatica del ritrovarsi senza casa e con bambini o anziani a cui prestare cure.

Come il fascismo governava le donne

L’approccio del fascismo alle donne era bivalente: da un lato mirava a riportare la donna alla sua missione “naturale” di madre e di perno della famiglia, a una visione del tutto patriarcale; ma dall’altro era inteso a “nazionalizzare” le donne, a farne una forza moderna, consapevole della propria missione nell’ambito dello Stato etico; e perciò a dar loro un ruolo e una dimensione pubblica, sempre a rischio di entrare in conflitto con la dimensione domestica tradizionale. Il regime mise molto impegno nel disinnescare in tutti i modi questo potenziale conflitto, colpendo soprattutto il lavoro femminile. Ne parla un libro importante di Victoria de Grazia.