Un surrogato – leggo anch’io sul vocabolario Treccani – è un “prodotto o sostanza che surroga, in quanto ha caratteristiche e proprietà analoghe, un altro prodotto o un’altra sostanza, rispetto ai quali è spesso inferiore di qualità ma meno costoso e di più facile approvvigionamento”. Il dibattito italiano, evidentemente immemore delle catastrofi umane che si succedono incessanti (guerre, femminicidi e quelli che, senza pudore, chiamiamo disastri naturali), continua a proporre idee “novecentesche” poco adatte a confrontarsi con le realtà di un millennio ancora agli esordi eppure già tragicamente rodato. E lo fa perché si tratta di concetti a buon mercato, facili da ripescare nel vecchio lemmario e da rivendere all’opinione pubblica, mettendo in atto una sorta di operazione di depistaggio se non proprio di aperta propaganda, diretta a distrarre l’attenzione dal vero tema che è quello della crisi (e delle colpe) della democrazia. Faccio due esempi.
Il primo è l’idea di patria, resuscitata nel tentativo di alimentare tra gli italiani quel senso di identità e di appartenenza, di “orgoglio nazionale”, che si ritiene abbiano perso per strada (ammesso che l’abbiano mai posseduto) e che, oggi più che mai, rappresenterebbe l’antidoto al virus della globalizzazione che, tra il resto, spinge masse incontrollate di migranti a premere ai confini dell’Italia e dell’Europa intera (migranti che, va da sé, invece di fare i patrioti a casa propria, non vedono l’ora di sostituirsi alla nostra etnia e di contaminare la nostra purissima razza ariana). Non ho mai capito come un fattore così casuale come il luogo in cui si nasce possa essere rivendicato come fondativo della propria identità; tanto meno come possa essere usato come arma (e non solo retorica) contro chi, in maniera altrettanto casuale, è nato al di là di un confine tracciato in modo più o meno arbitrario nel corso della storia dai nostri progenitori: il motto our country, right or wrong rappresenta l’archetipo di un modo ipocrita e manipolatorio di fare appello all’attaccamento che si può sviluppare nei confronti del posto in cui si è nati e cresciuti. In realtà, si può amare il proprio paese, la sua cultura e le sue tradizioni, senza doverne assecondare le ignominie. Si può difenderlo dalle aggressioni semplicemente in nome della libertà e del diritto all’autodeterminazione, valori politici che, di per sé, prescindono da qualunque appartenenza culturale per il semplice fatto che le tutelano tutte. La storia ci insegna che si può persino difendere un sistema politico democratico altrui dall’assalto dei regimi totalitari, per motivi ideali che nulla hanno a che vedere con il “patriottismo”. Il termine patria, oltretutto, è ambiguo fin nell’etimologia, in quanto sostantivazione femminile del termine “paterno”: un’indebita appropriazione di genere, potremmo dire, o un tentativo maldestro di rendere la madre comunque consustanziale al padre.
In questo caso, il termine che si vuole surrogare è civismo, da civis: cittadino; un termine dalla valenza universale perché pertiene a chiunque viva all’interno di un contesto sociale, a prescindere dalla patria di origine. Il civismo è la capacità di sentirsi appartenente a una comunità, ovunque si risieda, che si tratti del proprio luogo di nascita o di qualunque altra destinazione nella quale la vita – le vicende familiari, la ricerca di un lavoro o della salvezza – ti abbia condotto. Per riprendere un’osservazione fatta in un precedente articolo sulla deriva clanica della società, il vero dramma della nostra democrazia è la storica e diffusa incapacità di distinguere la sfera collettiva da quella privata, la pretesa di fare strame della moralità pubblica, di subordinare il servizio a favore della comunità al perseguimento degli interessi individuali o della propria cricca di riferimento. Il problema, insomma, non è la…