In questi ultimi mesi è tornata di attualità l’opera critica di Günther Anders, che già nel 1956 pubblicava il primo dei due volumi di L’uomo è antiquato, seguito nel 1980 dal secondo, in cui analizzava la dipendenza dell’uomo dalle macchine e la sua inadeguatezza a concorrere con la loro efficienza. La tesi di fondo è che lo sviluppo tecnologico abbia compiuto, dalla prima rivoluzione industriale in poi, un tale salto di qualità da rendere l’uomo inadatto a colmare il dislivello con le macchine e ad affrontare le trasformazioni della modernità. Al processo di totalitarismo tecnologico corrisponde la reificazione dell’uomo che da soggetto produttore diventa mero consumatore, privo di autonomia decisionale, in balia di logiche economiche da cui non riesce a emanciparsi.
L’orgoglio derivante da quella “sindrome di Prometeo” che ha spinto l’uomo a superare i propri limiti nella ricerca del dominio sugli eventi della natura, ha finito, secondo Anders, per creare un’asimmetria tra i prodotti che ha costruito e la sua stessa capacità di immaginarne la potenziale distruttività. La vergogna di essere diventato obsoleto riguardo al mondo “oggettuale” da lui stesso creato, di dover arretrare di fronte ai suoi strumenti, sempre più efficienti e funzionali, ha generato un duplice atteggiamento: da un lato un assoggettamento a qualcosa che ora si erge estraneo dinanzi a lui e dall’altro l’esaltazione acritica ed euforica per ciò che tali strumenti potrebbero ancora permettergli di fare. Lo chiarisce bene in uno dei due volumi che lo hanno reso celebre: “‘Prometeica’ chiamo però quella differenza che si manifesta quale dislivello fondamentale; cioè quel dislivello che sussiste tra la nostra ‘prestazione prometeica’, tra i prodotti fabbricati da noi, figli di Prometeo e tutte le altre prestazioni; il fatto che non siamo all’altezza del ‘Prometeo che è in noi’”.[1]
Gli eventi del Novecento, col suo carico di orrori, di guerre, di mezzi di distruzione di massa, frutto impensabile di un’esplosione scientifico-tecnologica straordinaria, hanno determinato un vero cambiamento antropologico nell’essere umano, diventato del tutto incapace di rendersi conto delle conseguenze di ciò che ha creato, generando una “cecità all’apocalisse” che lo rende di fatto irresponsabile nei riguardi del mondo e del futuro. L’uomo, così, è arrivato a costruire ciò che può “produrre la propria distruzione”,[2] incurante, in una sorta di automatismo meccanico, della minaccia incombente e obbediente alla logica dell’età contemporanea, all’ossessione consumistica per cui ciò che può essere prodotto deve essere prodotto e ovviamente ciò che può essere prodotto deve essere usato. In tal senso, le bombe atomiche sganciate in Giappone nell’agosto del 1945 rappresentano davvero una possibilità realizzata, che – e questo è il fatto tragico – non preserva dall’eventualità che possano essere riutilizzate. Proprio questa ripetibilità deve indurci a tener viva la coscienza e a vigilare costantemente perché se un evento passato è finito, non è finito il progetto, il “disegno” che l’ha permesso e che rimane disponibile alla sua volontà.
Il campo di sterminio, la distruzione indiscriminata di esseri umani e intere città, che hanno segnato la barbarie del XX secolo (con l’organizzazione tayloristica che ha supportato la “soluzione finale” e il “progetto Manhattan” alla base della costruzione della bomba atomica), rappresentano dei “punti di non ritorno” e segnano la mutazione dell’uomo novecentesco: “Gli eventi di Auschwitz e di Hiroshima possono anche essere rimossi dalla memoria (ammesso che vi siano mai penetrati), e questo di fatto è accaduto. Ma, al contrario, non può essere rimossa la loro ripetibilità”.[3] È proprio questa a rendere precario il futuro dell’umanità: avendo scoperto il proprio potere e “attualizzandolo”, concretizzandolo in oggetti che usa e che può riprodurre, l’homo faber ha iniziato a percorrere una strada da cui non può più t…