Nel 1950 Rashomon, diretto da Akira Kurosawa, conquista dapprima il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia e poi va a vincere l’Oscar come miglior film straniero. Dopo la guerra e la bomba, il cinema giapponese, così, entra in Europa e nel Mondo dalla porta principale. Non si tratterà certo di un successo squisitamente popolare, ma dell’interesse degli appassionati di cinema e della curiosità degli uomini e donne di cultura.
A un giovane di oggi il nome di Kurosawa non dice nulla perché, come aveva predetto lui stesso, “scomparsi i grandi maestri di un tempo, ossia Ozu e Mizoguchi, oggi i veri eredi della tradizione classica giapponese sono gli animatori”, come il caso di Miyazaki certifica pienamente.
Kurosawa resta tuttavia il più occidentale degli artisti cinematografici giapponesi del dopoguerra. Paragonato a John Ford per la capacità di filmare il paesaggio assolato e polveroso, a Fellini per il gusto barocco della messinscena, a De Sica per i suoi film meno conosciuti (quelli girati nei bassifondi delle metropoli), in onore di Kurosawa sono tributati omaggi di ogni tipo. Hollywood trae dal successo internazionale de I sette samurai (1954), un remake western dal titolo non equivocabile, I magnifici sette, con Yul Brinner al posto di Toshiro Mifune, per la regia di John Sturges. George Lucas dà inizio alla saga di Star Wars, nell’episodio IV, con una esplicita citazione dall’incipit de La fortezza nascosta (film che anche Roman Polanski mette tra i suoi preferiti). Ingmar Bergman realizza con La fontana della vergine, premio Oscar per il miglior film straniero nel 1960, un’opera che a suo dire altro non sarebbe che “una miserabile imitazione di Rashomon<…