“Un’altra Italia era possibile”: l’Italia sognata (e quella mai realizzata) da Giuseppe De Santis

Un documentario del critico e cineasta Steve Della Casa racconta a Venezia il cinema di Giuseppe De Santis, autore di “Riso amaro”, nume italiano del film sociale. In questa intervista a tre, lo stesso Della Casa e la moglie di De Santis, Gordana Miletic, ricordano il grande autore e la sua idea di Italia, Paese amato e sognato, e la sapienza con cui seppe combinare fra loro l’impegno politico e il senso dello spettacolo.

Silvana Mangano in pantaloncini e maglietta, le calze a mezza coscia, in testa un capello di paglia. Sembra emergere dalle acque della risaia come una statua, una Venere delle mondine dalla bellezza provocante e dal fascino ambiguo. Questa è una delle immagini più famose del cinema italiano, ancora oggi utilizzata come icona di bellezza senza tempo. Il film è Riso amaro, di Giuseppe De Santis, che al suo secondo lungometraggio confermava il suo interesse per i temi sociali e la lotta di classe, ma anche per il dramma e il racconto popolare, aprendo il suo personalissimo sguardo neorealista al fotoromanzo e a tutte quelle suggestioni provenienti dall’America (la radio, il chewing gum, la musica…) che di lì a poco avrebbero cambiato usi, costumi e gusti del nostro Paese. Una nuova Italia si profilava all’orizzonte: era quella sognata da chi era sopravvissuto alla guerra, da chi sperava di costruire un futuro migliore, quella di una generazione che credeva nell’impegno politico e nella lotta di classe per abbattere il più possibile le diseguaglianze sociali. De Santis alla realizzazione di questa Italia ha dedicato quasi tutta la sua opera (e anche la sua vita, sostenendo in prima persona tante battaglie), undici film che sono a volte dei capolavori e a volte film unici e toccanti o innovativi che raccontano il periodo turbolento di questa trasformazione prima del boom industriale.

Di questo grande sogno collettivo ci parla oggi un documentario di Steve Della Casa, presentato in questi giorni alla Mostra del cinema di Venezia nella sezione Venezia classici, Un’altra Italia era possibile, il cinema di Giuseppe De Santis, prodotto da Pierfrancesco Fiorenza e Andrea Lorusso Caputi per Beetlefilm (produttore associato Massimo Vigliar per Surf film). Il documentario riunisce nel nome del regista tanti talenti del cinema italiano di oggi, suoi allievi durante il periodo di docenza al Centro sperimentale (da Paolo Virzì a Francesca Reggiani, da Mario Martone a Iaia Forte, Roberto De Francesco e Andrea Purgatori), e dà spazio alla preziosa testimonianza della moglie Gordana Miletic. Conosciuta a Belgrado durante le riprese di La strada lunga un anno nel 1958, gli è stata a fianco per tutta la vita.

Il film si intitola Un’altra Italia era possibile ed era quella sognata da De Santis, un regista che ha vissuto l’esperienza del cinema senza mai slegarla dal suo impegno politico. Cosa significava, negli anni che hanno visto una profonda trasformazione dell’Italia, essere un intellettuale organico nel modo del cinema?

Steve Della Casa: Questo è proprio il punto di partenza. Ho voluto testimoniare come De Santis sia stato il regista che con maggiore lucidità ha raccontato le speranze politiche e sociali della generazione che aveva dovuto vivere in prima persona gli orrori della Seconda guerra mondiale, lo scempio delle leggi razziali, la vergogna dell’8 settembre e della fuga dei Savoia. Lui era un intellettuale che aveva creduto profondamente nell’idea che un’altra Italia fosse possibile e si è battuto affinché q…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.