Dopo le atrocità commesse da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre, i maniaci della guerra fanno esplodere le loro bombe per non dare risposta ai loro fallimenti. La richiesta di vendetta risuona in tutto il Paese, mentre l’esercito israeliano invade via terra la Striscia di Gaza assediata. Le scuole e gli ospedali sono divenuti cimiteri a cielo aperto. Non vi è più spazio neanche per seppellire i morti. Parlare di “cancellare” e “radere al suolo” Gaza è ormai un luogo comune nelle aule della Knesset. C’è chi suggerisce di lanciare una bomba atomica sulla Striscia, chi chiede l’espulsione dell’intera popolazione.
In questa cacofonia d’odio, una parte della società israeliana rifiuta di soccombere alla logica binaria. Sono i familiari delle vittime dei massacri di Hamas e delle oltre 240 persone rapite a Gaza. Chiedono di non utilizzare il loro dolore per seminare altra morte e distruzione, invocano la fine dell’assedio a Gaza e la priorità di un accordo per il rilascio degli ostaggi. In un elogio funebre per Haym Katsman, un attivista anti-occupazione assassinato nella sua casa il 7 ottobre, suo fratello Noi ha chiesto al suo governo di “fermare il circolo del dolore e di capire che l’unica via per il futuro e la libertà è l’uguaglianza dei diritti”. Ziv Stahl, direttore esecutivo dell’organizzazione per i diritti umani Yesh Din e sopravvissuto al fuoco infernale nel Kibbutz di Kfar Aza, si è espresso con forza contro il massacro di Israele a Gaza in un articolo pubblicato su Haaretz. “Non ho bisogno di vendetta, niente mi restituirà coloro che se ne sono andati”, ha scritto. “I bombardamenti indiscriminati a Gaza e l’uccisione di civili non sono la soluzione”. Queste voci vengono amplificate dalle associazioni, i collettivi e le organizzazioni israeliane e palestinesi, impegnate per la fine delle politiche di colonizzazione e occupazione e per un futuro dignitoso e giusto per tutte le comunità che vivono nella regione.
Tra queste voci c’è quella di Ariel Bernstein, 30 anni, nato e cresciuto a Gerusalemme sotto i colpi della Seconda Intifada. Nel 2014 ha servito come soldato nell’operazione militare a Gaza. Oggi è ricercatore presso “Breaking The Silence”, l’associazione di ex militari israeliani che hanno prestato servizio nell’esercito a Gaza e e in Cisgiordania. Dal 2004 denunciano il regime di apartheid nei territori occupati raccogliendo testimonianze di ex soldati che decidono di rompere il silenzio. Vive in Italia, a Bologna, dove sta conseguendo un Master in Antropologia.
“Quel maledetto lunedì sono stato svegliato dal suono delle sirene. Mentre iniziavo a ricostruire il quadro raccapricciante degli attacchi di Hamas, non potevo fare altro che rassegnarmi all’idea che Israele stava per affrontare l’ennesima guerra a Gaza, questa volta su scala completamente diversa. Tremavo. Sapevo che sarebbe stata una carneficina.”
È tale è stata. L’esercito israeliano ha strappato alla vita circa 14.000 civili palestinesi in meno di due mesi e tiene tuttora sotto assedio due milioni di persone. Un eccidio che non può essere letto sotto il cappello della “legittima difesa” – per citare le parole della Knesset – al massacro per mano di Hamas del 7 ottobre, dove i miliziani hanno sequestrato, seviziato e ucciso circa 1200 civili, per lo più ebrei israeliani, ma anche palestinesi cittadini di Israele, lavoratori migranti e residenti in Israele. Riconoscerne la brutalità non può diventare cieca giustificazione per la strage in atto a Gaza. Comprenderne le ragioni storiche e le cause strutturali, non può diventare omertà di fronte a pratiche reazionarie e distruttive.
“Al di là dell’immoralità di giustificare le atrocità che Israele sta commettendo a Gaza, l’aspettativa che questa volta il massacro di massa porti a un risultato diverso rispetto a tutte le campagne militari precedenti è un terribile autoinga…