Il principio del free speech è morto anch’esso a Gaza?

Negli Stati Uniti la libertà di espressione, il cosiddetto "free speech", è un principio costituzionale di primo piano, l'essenza stessa della società americana. Eppure, dall'inizio della rappresaglia israeliana su Gaza tutte le opinioni solidali con il popolo palestinese e/o critiche verso lo Stato d'Israele sono state represse e sottomesse a censura, anche grazie al facile ricatto che i donor multimiliardari delle Università americane possono esercitare attraverso i loro ingenti finanziamenti privati.

Nessun principio fondamentale rappresenta, nell’immaginario collettivo, l’essenza stessa della democrazia statunitense quanto il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero. Celebrato nel tempo attraverso le tante decisioni della Corte Suprema federale che hanno imposto il rispetto del dissenso – anche laddove si oltraggi un pubblico ufficiale mostrando il dito medio per esempio, o si insulti pesantemente qualcuno esprimendo odio e disprezzo per ciò che è, simboleggia o pensa, o ancora si organizzi una manifestazione razzista paventando il ricorso alla vendetta nei confronti delle istituzioni politico giuridiche non compiacenti – è soprattutto in ambito scolastico e universitario che quel principio del free speech è parso trovare pieno riconoscimento. “Gli insegnanti e gli studenti devono sempre rimanere liberi di indagare, studiare e valutare, per raggiungere una piena maturità e comprensione; altrimenti la nostra civiltà stagnerà e morirà” ha più volte ripetuto la Suprema Corte, imponendo la tolleranza nei confronti degli intolleranti[1].

Il rispetto per il così detto marketplace delle idee[2], che sta alla base di una democrazia liberale in cui come scrisse nel 1961 Hugo Black “dobbiamo proteg­gere le idee che detestiamo, altrimenti presto o tar­di ci proibiranno di esprimere quelle che amiamo”[3], ha prodotto decisioni che hanno imposto a tutte le università pubbliche di eliminare i così detti hate speech codes. I regolamenti dei colleges universitari pubblici che, per garantire distensione sociale e protezione alle minoranze, proibiscono e sanzionano le espressioni verbali offensive all’interno dei campus, sono stati giudicati incostituzio­nali dalle Corti federali tutte le volte che queste ultime sono state investite della questione. Le università (pubbliche) non hanno così per esempio potuto censurare programmi radiofonici studenteschi pieni di battute razziste, o impedire agli studenti di appendere alle finestre dei loro campus una tunica bianca s…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.