Nessun principio fondamentale rappresenta, nell’immaginario collettivo, l’essenza stessa della democrazia statunitense quanto il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero. Celebrato nel tempo attraverso le tante decisioni della Corte Suprema federale che hanno imposto il rispetto del dissenso – anche laddove si oltraggi un pubblico ufficiale mostrando il dito medio per esempio, o si insulti pesantemente qualcuno esprimendo odio e disprezzo per ciò che è, simboleggia o pensa, o ancora si organizzi una manifestazione razzista paventando il ricorso alla vendetta nei confronti delle istituzioni politico giuridiche non compiacenti – è soprattutto in ambito scolastico e universitario che quel principio del free speech è parso trovare pieno riconoscimento. “Gli insegnanti e gli studenti devono sempre rimanere liberi di indagare, studiare e valutare, per raggiungere una piena maturità e comprensione; altrimenti la nostra civiltà stagnerà e morirà” ha più volte ripetuto la Suprema Corte, imponendo la tolleranza nei confronti degli intolleranti[1].
Il rispetto per il così detto marketplace delle idee[2], che sta alla base di una democrazia liberale in cui come scrisse nel 1961 Hugo Black “dobbiamo proteggere le idee che detestiamo, altrimenti presto o tardi ci proibiranno di esprimere quelle che amiamo”[3], ha prodotto decisioni che hanno imposto a tutte le università pubbliche di eliminare i così detti hate speech codes. I regolamenti dei colleges universitari pubblici che, per garantire distensione sociale e protezione alle minoranze, proibiscono e sanzionano le espressioni verbali offensive all’interno dei campus, sono stati giudicati incostituzionali dalle Corti federali tutte le volte che queste ultime sono state investite della questione. Le università (pubbliche) non hanno così per esempio potuto censurare programmi radiofonici studenteschi pieni di battute razziste, o impedire agli studenti di appendere alle finestre dei loro campus una tunica bianca s…