Il Generale va alla Cop: l’industria militare e l’ultima frontiera del greenwashing

Ha senso parlare di “sostenibilità ambientale” in relazione a un’attività come la guerra? La crescente presenza di personale militare e dipartimenti della Difesa alle Conferenze per le parti (Cop) dimostra che anche questo settore, come altri, si propone come soluzione ai problemi che crea. Un caso di greenwashing particolarmente eclatante, se si considera che nessun Paese è obbligato a riferire le emissioni riconducibili alla propria attività in ambito militare.

Ogni anno, in vista delle Cop sul clima, il Conflict and Environment Observatory (Ceobs) calcola il Military Emission Gap, che mira a monitorare le emissioni riconducibili all’industria militare, le quali non vengono registrate o comunicate dai Paesi. Lo fa raccogliendo i dati più recenti dell’Unfccc, accanto a un’analisi dell’accessibilità dei dati condivisi dai ministeri della difesa dei singoli Stati, che vengono poi classificati rispetto a chi risulta più o meno trasparente. L’analisi di quest’anno, pubblicata in vista della Cop28, mostra come nessun paese abbia migliorato il proprio Military Emission Gap. La Norvegia è persino peggiorata rispetto al 2022: se l’anno scorso calcolava l’utilizzo di carburante sia delle strutture stabili sia dei mezzi mobili dell’esercito, oggi riporta soltanto le emissioni causate dai secondi. Quanto calcolato dalla Norvegia non si avvicina neanche lontanamente a quello che realmente consuma. Lo stesso calcolo molto parziale e distante dalla realtà viene effettuato dal Regno Unito, dagli Stati Uniti, dalla Germania, dal Canada e da numerosi Paesi europei. Nel report del CEOBS di quest’anno si legge inoltre che Giappone, Irlanda e Nuova Zelanda non hanno proprio riportato le emissioni del loro settore militare all’Unfccc, nonostante abbiano calcolato parte delle emissioni nei singoli Ministeri della difesa. Questo significa che probabilmente sono perfettamente in grado di misurare l’impatto ambientale del settore militare, ma che l’Unfccc concede ai Paesi la libertà di non comunicarli. Si stima che l’impatto ambientale dell’industria militare corrisponda al 5,5% circa delle emissioni globali, ma dal momento che il calcolo delle emissioni del settore militare di un Paese viene comunicato alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) su base volontaria, le informazioni accessibili al pubblico sono molto limitate se non del tutto assenti.

È pertanto importante contestualizzare la crescente presenza della Nato, del dipartimento della difesa statunitense e dell’industria militare in generale alle Cop in un quadro che a oggi risulta molto poco trasparente. Più trasparenti invece sono i bombardamenti sui territori e i loro effetti. Gli Stati Uniti danno priorità agli aiuti militari in Israele rispetto ai loro impegni sul taglio delle emissioni, e oltre alle incalcolabili ripercussioni umanitarie sugli abitanti della regione, l’impatto ambientale di una guerra come quella su Gaza non è equiparabile a nessun altro ambito economico o settore inquinante. Lo stesso vale per la guerra in Ucraina per mano di Putin, sulla quale alla Cop dell’anno scorso si è tenuto un dibattito per sottolineare la responsabilità della Russia per gli effetti devastanti che la guerra sta avendo sull’ambiente, sulla produzione agricola e sulla sicurezza alimentare in Ucraina. Un gruppo di ricercatori

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.