Ariel Sharon, l’uomo pronto a tutto per Israele

Quando arrivò la notizia della morte dell’ex Primo Ministro d’Israele Ariel Sharon, comunicata dalla sua famiglia alla stampa con una fredda nota rilasciata l’11 gennaio 2014, nessuno si era dimenticato di lui. E già questa è una notizia, perché giaceva in un letto nella sua amata fattoria di Havat Shikmim in coma dal 2006. Perché la vita di Ariel Sharon non è stata una vita comune. Se lasciare il segno, avere un impatto, può essere un metro per giudicare un’esistenza, di sicuro quella di Sharon è stata come uno dei mezzi corazzati che era abituato a guidare in battaglia.

Le origini e la carriera militare

Ariel Sharon nacque Sheinerman, da una famiglia umile di ebrei lituani emigrati in Palestina in fuga dalla Rivoluzione russa e dai pogrom, che prese il cognome Sharon, ‘Foresta’, una volta arrivati sotto il Mandato britannico. La famiglia si era insediata in un moshav – cooperativa agricola – alle porte di Gerusalemme, Kfar Malal. Militò da subito, molto giovane, nelle formazioni armate paramilitari sioniste che in Palestina erano molto attive, e feroci, all’epoca più contro i soldati e i funzionari britannici che contro gli arabi. Le stesse formazioni che si armavano grazie ai soldi della diaspora ebraica, convinti che quella terra era loro per mandato divino, in anni in cui la tragedia dell’Olocausto era molto lontana da venire. I membri della famiglia di Sharon, e lui con loro, erano esponenti di quel sionismo aggressivo vicino alle idee di Ze’ev Jabotinsky, che negli anni Venti e Trenta girava il mondo allertando gli ebrei che solo uno Stato-nazione in Palestina li avrebbe potuti proteggere dalla fine degli Imperi. Aveva ragione, ma era esaltato da un afflato religioso e razzista verso gli arabi, mentre il sionismo pragmatico, che porterà davvero alla fondazione di Israele nel 1948, avrebbe accettato una terra in qualsiasi parte del mondo. Per tutto quel che ormai sappiamo, alla fine, quella terra è stata proprio in Palestina, ma Ben Gurion e gli altri emarginarono da potere Jabotinsky e i suoi, per creare uno Stato laico e vagamente socialista. Per la famiglia di Sharon e i seguaci di Jabotinsky, invece, la Palestina era un destino e un imperativo, da ottenere a qualsiasi costo, ma allo stesso tempo erano ferocemente anti-socialisti e si sentivano lontani dalla classe dirigente israeliana. Molti sostenitori del pensiero di Jabotinsky finirono per andar via, in attesa di tempi migliori, ma Ariel Sharon no, perché prima di tutto si sentiva un soldato, pronto a morire per Israele. La sua carriera militare, senza soluzione di continuità con la militanza paramilitare, fu brillante e rapida. Anche perché, pur venendo da una famiglia come la sua, non è mai stato particolarmente osservante: “Credo in Dio, ma non mi definirei religioso”, rispose a Oriana Fallaci in una famosa intervista per L’Europeo. Quel che non disse è che la sua religione era Israele, una religione che praticò per tutta la vita.

E di Israele, era un fanatico e strenuo difensore, al punto da ritenere che qualsiasi cosa poteva – in una visione sempre strategica – essere sacrificata per raggiungere l’obiettivo. Proprio per questo, alla fine, il suo lascito ancora divide gli israeliani, almeno quelli della sua generazione. Una divisione che non riguarda la sua carriera militare, anzi, ma che come vedremo inizia dopo l’ingresso in politica.

Durante la sua carriera militare, Sharon ha la statura dell’eroe nazionale, nonostante le zone d’ombra non mancassero neanche allora. A 15 anni era già un miliziano dell’Haganah, che divenne il corpo da cui nacque l’esercito d’Israele. Veterano, e ferito gravemente, nel conflitto ’48-’49, comandante negli anni Cinquanta della famigerata Unità 101, una forza speciale militare creata ad hoc per reagire con rappresaglie agli attacchi terroristici sul suolo israeliano. Un’operazione nota, da lui guidata, è quella della cosiddetta strage di Qibya, quando nel 1953 la sua unità fece esplode…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.