Bombardamenti umanitari

La “catastrofe umanitaria” richiama “l’emergenza climatica”. La disperata impotenza degli operatori dell’Onu e delle Ong nelle macerie della striscia di Gaza non può non far venire in mente quella degli attivisti ambientali intenti a ripulire sterminati litorali pattumiere di plastiche, gli uni e gli altri a svuotare l’oceano con un cucchiaino, impossibilitati ad alleviare quel che vorrebbero, e dovrebbero, invece sanare. In modo simmetrico, quando si chinano comprensivi “sul disastro umanitario” di Gaza, i pensosi consessi delle potenze mondiali replicano come cloni i vertici sulla salvaguardia dell’ambiente. E i crimini di guerra e i tribunali internazionali vengono invocati solo per il nemico.

Ormai da tre mesi la mattina faccio colazione tra le macerie. Sorseggio il caffellatte tra i gemiti dei feriti che fuoriescono dalla tv. A cena, la forchettata di verdure è ingerita con bambini squarciati dalle bombe. Donne che urlano la loro disperazione mi accompagnano nello sbucciare la mela.
C’è da chiedersi se tutti questi orrori non ci faranno ingrassare troppo. Senza accorgercene, siamo diventati tutti discepoli del cavaliere di Dolmancé, il maestro di cerimonia cui Sade fa presiedere l’educazione immorale di Justine, quando chiude La philosophie dans le boudoir con queste immortali parole: “Voilà une bonne journée! Je ne mange jamais mieux, je ne dors jamais plus en paix que quand je me suis suffisamment souillé dans le jour de ce que les sots appellent des crimes”.
Ci stiamo abituando alla ferocia quotidiana. Poi ci chiediamo come facessero i tedeschi a ignorare il genocidio che si perpetrava attorno a loro. Noi pasteggiamo a genocidio temperatura ambiente. Noi, i guardiani inflessibili dei “valori dell’occidente”, difensori implacabili del “diritto internazionale” che istituiamo “tribunali internazionali” per giudicare i “crimini di guerra” (ma solo dei nostri avversari).

Siamo davvero compunti per “le vittime civili”, proprio rammaricati per le “morti degli innocenti”. Ci rincrescono molto gli ospedali rasi al suolo. C’impietosiscono quegli straccioni senza futuro che assaltano i pochi camion che li raggiungono. Ci affliggono le decine di giornalisti falciati. Ma la “catastrofe umanitaria” non ci impedisce di dormire la notte, anche se “si deteriora di giorno in giorno”.

La “catastrofe umanitaria” richiama “l’emergenza climatica”. La disperata impotenza degli operatori dell’Onu e delle Ong nelle macerie della striscia di Gaza non può non far venire in mente quella degli attivisti ambientali intenti a ripulire sterminati litorali pattumiere di plastiche, gli uni e gli altri a svuotare l’oceano con un cucchiaino, impossibilitati ad alleviare quel che vorrebbero, e dovrebbero, invece sanare. In modo simmetrico, quando si chinano comprensivi “sul disastro umanitario” di Gaza, i pensosi consessi delle potenze mondiali replicano come cloni i vertici sull…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.