L’ultimo viaggio di Lenin, l’utopia della Leninesia: intervista a Francesco Pala

"L'ultimo viaggio di Lenin" di Francesco Pala, vincitore dell'ultima edizione del Premio Letterario Neri Pozza, segue le immaginifiche gesta di un gruppo di comunisti in fuga con la salma del leader per fondare la Repubblica della Leninesia, una nuova utopia comunista, mistico-esoterica, in grado di raggiungere il punto più alto: sconfiggere la morte. Abbiamo parlato con l'autore del romanzo.

L’ultimo viaggio di Lenin di Francesco Pala è il romanzo vincitore della VI edizione del Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza. La storia è quella di un gruppo di comunisti delusi da Stalin che, all’indomani della morte di Lenin, ne rapisce la salma e intraprende un viaggio attraverso la Russia per fondare la Repubblica popolare di Leninesia, e realizzare così un comunismo in grado di sconfiggere persino la morte, ispirandosi a un iniziatico saggio mistico. Abbiamo parlato con l’autore, docente di storia e filosofia, studioso del pensiero postmoderno.

Come le è venuta in mente questa rocambolesca fuga di un gruppo di comunisti delusi da Stalin con il corpo imbalsamato di Lenin?
Mi ha sempre affascinato il modo in cui le gerarchie sovietiche vollero consegnare Lenin ad una condizione sospesa tra la morte e la vita, in bilico tra la possibile decomposizione e una vitalità simbolica e politica dirompente. Lo fecero per sfruttare il magnetismo del suo corpo, per ragioni legate alla continuità del potere. Mi interessava sondare l’ipotesi letteraria di un gruppo di uomini, di asceti, di mistici dell’ideale, pronti a dare una nuova vita all’involucro di Lenin, un’esistenza lontana dalla fissità ieratica del mausoleo moscovita. Mi attraeva, poi, l’idea che il cadavere ossequiato dalle gerarchie sovietiche, da principale alleato della conservazione del regime si trasformasse in un grave problema politico da risolvere nel pieno della Seconda guerra mondiale, “Le mort saisit le vif!”.

È vero che il regime sovietico riservava molta attenzione a una “buona pratica dell’imbalsamazione”? Perché mai?

Sì, l’imbalsamazione ebbe un ruolo importante nelle politiche simboliche del mondo sovietico, almeno fino alla morte di Stalin, il cui corpo riposò per diversi anni accanto a quello di Lenin. È un aspetto del mondo sovietico che ha attratto la mia attenzione proprio per la sua natura ambigua: da un lato sembra voler chiedere al corpo e alla sua lotta contro la corruzione materiale di farsi metafora dell’eternità del socialismo. D’altro lato, il cadavere del leader assume un aspetto spirituale, quasi mistico, in linea con le radici profonde della tradizione. Un paradosso che lascia intendere le complessità a cui andò incontro il progetto secolarizzato di redenzione voluto dai rivoluzionari. Non a caso, uno dei personaggi del mio romanzo, partecipe dell’impresa fondativa della Leninesia, si richiama alla propria provenienza contadina e dice di credere alla possibilità che un giorno il corpo di Lenin possa tornare a vivere, ma confessa di non credere alla possibilità che gli uomini possano trasformare sé stessi.

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.