La Germania e i suoi conti con la storia andati in tilt

La Germania è uno dei Paesi che più è riuscito a fare i conti con la propria storia, macchiata dagli orrori nazisti e dall’Olocausto. Ma questa nobile operazione a un certo punto è andata fuori controllo, generando una vera e propria isteria collettiva. Nessuna critica possibile a Israele ed emarginazione di chiunque sia anche solo accusato di essere antisemita, senza fornire alcuna prova a riguardo. Questo perché, ogni volta che guardano alle vicende ebraiche, i tedeschi vi vedono riflesso il proprio inestinguibile senso di colpa. Ma la rilettura della propria storia condotta solo attraverso l’autoflagellazione alla fine si rivela includente e finanche perniciosa.

Come ricordiamo le parti della nostra storia che preferiremmo dimenticare? Il rimosso e la revisione sono sempre opzioni. Pochi arriveranno fino a Ron DeSantis, che ha riformulato la schiavitù americana facendola diventare una forma di scuola commerciale, ma coloro che sono onesti noteranno il modo in cui si evolvono le loro narrazioni. Evidenziare i successi e consegnare i fallimenti all’oblio è comune quanto scrivere un curriculum. Le nazioni non sono meno propense degli individui ad abbellire il proprio passato. Gli storici possono faticare negli archivi alla ricerca di qualcosa di simile alla verità, ma la memoria collettiva è un progetto politico il cui rapporto con i fatti è più precario.

Quindi non sorprende che fino a poco tempo fa gli scolari americani imparassero a recitare l’inizio della Dichiarazione di Indipendenza senza mai apprendere che i Padri Fondatori ignorassero i diritti alla libertà degli afroamericani e i diritti alla vita dei nativi americani. La memoria collettiva è progettata per creare identità che le persone siano orgogliose di sostenere. Perché insegnare agli scolari che le realtà americane hanno violato gli ideali americani fin dall’inizio della storia del Paese se ciò può solo causare vergogna? Ma l’America non è certo l’unica a preferire una versione eroica del suo passato. Non c’è da meravigliarsi che ciò che si raccontano le nazioni metta in mostra le parti migliori della loro storia. Cresci i bambini a suon di Magna Carta e Battaglia d’Inghilterra e saranno felici di condividere la gloria della nazione britannica. Perché confonderli con le storie sull’impero? Gli scolari francesi possono essere orgogliosi di essere cittadini del Paese che ha donato al mondo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino; c’è bisogno di dire loro che non è stata rispettata pochi anni dopo aver ispirato la rivoluzione di Haiti, il cui leader, Toussaint L’Ouverture, fu condannato a morte in una prigione francese?

Laddove i fallimenti nazionali sono impossibili da valorizzare e troppo grandi per essere ignorati, gli individui e le nazioni scelgono la strada del vittimismo: saremmo stati eroi se la storia non avesse calpestato i nostri sforzi. Alcune nazioni oscillano tra ricordi eroici e altri basati sull’essere stati vittime: mi vengono in mente Polonia e Israele. Ma fino a tempi molto recenti, nessuna nazione ha mai basato la propria narrazione storica sull’aver perpetrato crimini sconvolgenti per il mondo. Chi immaginerebbe che questo possa essere un modo per costruire l’identità nazionale?

Eppure negli ultimi decenni la Germania ha fatto proprio questo. È facile dire che non avesse scelta, che le atrocità della Seconda guerra mondiale invocavano l’espiazione. Ma per quarant’anni pochissimi tedeschi (occidentali) la vedevano in questo modo: coltivavano invece una narrativa che li vedeva come le principali vittime della guerra, in un modo che rispecchiava i racconti dei difensori americani della Causa Persa: abbiamo perso la guerra, le nostre città erano in rovina, i nostri uomini morti o languivano nei campi di prigionia. Eravamo affamati, riuscivamo a malapena a sopravvivere e per di più gli Yankees avevano il coraggio di incolpare noi per aver iniziato la guerra.

Questa litania non è del tutto falsa, anche se elude la prospettiva più ampia che rende tali sentimenti le disoneste e convenienti apologie che sono. Tuttavia, per comprendere non solo la Germania di oggi, ma anche il modo in cui la maggior parte degli…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.