Masafer Yatta, la resistenza non violenta al potere dei coloni

Nella regione di Masafer Yatta, la legge non è dettata solo dall’esercito israeliano ma anche - e soprattutto - dai coloni, che minacciano, picchiano, bruciano e uccidono. La loro violenza, definita “politica di terrore” persino dalla Francia, e quella dello Stato si intrecciano fra loro, minando alla radice ogni possibile soluzione politica in linea con le direttive delle Nazioni Unite. Qui, palestinesi e attivisti israeliani hanno unito le forze per praticare una co-resistenza non violenta.

La strada che collega la regione di Masafer Yatta al resto della Cisgiordania è attraversata da filo spinato, posti di blocco e colonie israeliane che divelgono le valli. Ci troviamo nel sud di Hebron, nella cosiddetta zona C della Cisgiordania occupata, sotto il controllo militare e amministrativo israeliano. In quest’area di circa 3 mila ettari, sorgono 20 villaggi palestinesi abitati da 3.000 persone che vivono di pastorizia e agricoltura da generazioni. I villaggi si sviluppano in piccoli agglomerati costituiti per lo più da case prefabbricate, tende e grotte. All’inizio degli anni Ottanta, in barba al diritto internazionale, Israele dichiarò una parte della regione “Firing Zone 918”, ovvero zona di addestramento militare, con l’intento di favorire la propria espansione coloniale, sfollando centinaia di persone nelle aree limitrofe. Dopo oltre due decenni di battaglie legali, nel maggio 2022 la Corte Suprema israeliana ha spianato la strada all’esercito per trasferire in qualsiasi momento i residenti che vivono all’interno della Firing Zone, demolire abitazioni, confiscare veicoli, erigere posti di blocco e censire la popolazione. Alle famiglie palestinesi viene ripetutamente negato l’accesso alle strade, alle fonti idriche ed elettriche, alle scuole, e ai servizi medico-sanitari.

Nella regione di Masafer Yatta, la legge non è dettata solo dall’esercito israeliano ma anche – e soprattutto – dai coloni, che minacciano, picchiano, bruciano e uccidono. Qui, la violenza dei coloni (definita “politica di terrore” persino dalla Francia) e dello Stato si intrecciano, minando alla radice ogni possibile soluzione politica in linea con le direttive delle Nazioni Unite. All’indomani dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, il ministro della sicurezza israeliano Itamar Ben Gvir, residente in una delle colonie nel sud di Hebron, ha ordinato la distribuzione di fucili d’assalto ai coloni in Cisgiordania. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, dall’inizio della guerra a Gaza sono state distribuite già quasi 30.000 armi. “Ormai è impossibile distinguere un colono da un soldato”, racconta Sami Huraini, 26 anni, attivista palestinese del villaggio di At-Twuani e leader dei comitati popolari in Palestina. Sami guarda oltre le colline brulle del suo villaggio, centro nevralgico della…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.