Oggi, quando si sente parlare di impresa pubblica, spesso si discute di possibili privatizzazioni di quote societarie o di dismissione dell’impegno pubblico in alcuni settori dell’economia. La “logica” dietro questo binomio impresa pubblica-privatizzazioni sta nel dogma liberista secondo cui meno Stato nell’economia equivale a più competitività economica e quindi crescita. Infatti, come è affermato sul sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze, la vendita di quote di partecipazione di società ed enti del settore pubblico sul mercato persegue obiettivi di riduzione del debito pubblico, di aumento dell’efficienza, efficacia ed economicità gestionale delle organizzazioni interessate.[1] Se tale imprinting determina ancora il metodo operativo dei governi la realtà, però, dimostra tutt’altro andamento.
Come si evidenzia nella Nadef,[2] dalle privatizzazioni si ipotizza di ricavare 20 miliardi in tre anni (pari all’1% del Pil). Da questi numeri, però, si deduce che, più che per il contributo per la sostenibilità del debito pubblico,[3] le cessioni sono rilevanti per gli effetti che gli assetti proprietari delle grandi imprese possono avere sulla trasparenza, il controllo democratico degli investimenti aziendali e sugli obiettivi di sviluppo economico generale.
L’odierna importanza delle imprese partecipate deriva, in realtà, dall’economia di tipo misto che caratterizza i Paesi occidentali. In tutti i Paesi europei, soprattutto in Francia, le società pubbliche sono una realtà consolidata. È così anche per l’Italia, dove il numero e la rilevanza economica delle partecipate statali, anche se inferiore alla media europea, è estesa a più settori di attività. Ed è in seguito a questa rilevanza che, storicamente, …