Figli di un dio minore. Reportage dalla terra degli yazidi

Vittime designate dell’Isis, seguaci di un culto millenario e ancora misterioso per i più, bersaglio dalla notte dei tempi di tentativi di genocidio, cancellazione e persecuzione, le sorti degli yazidi o ezidi rappresentano perfettamente la condizione di crocevia dei destini dell’umanità del territorio dell’antica Mesopotamia, dove tutte le cose del mondo sembrano succedere.

In principio furono gli yazidi, in principio fu l’Angelo pavone. È lui la figura centrale dell’identità religiosa di un popolo che è stato il primo a subire una feroce persecuzione da parte di Daesh. In quell’agosto di ormai quasi 10 anni fa, quando la marea nera degli incappucciati provenienti dalla confinante Siria dilagarono in tutto il territorio iracheno. Penetrando immediatamente nell’area dello Shengal, da sempre abitata dagli yazidi, candidati ideali per un’operazione di pulizia etnica ritenuta indispensabile all’instaurazione dello Stato dell’Iraq e del Levante. Un evento che passerà alla loro storia, dopotutto, come niente altro che il 74esimo firman, parola di origine ottomana che sta per tentativo di cancellarli dalla faccia della Terra. 

E se l’accusa di genocidio rimane giuridicamente sdrucciolevole – come vediamo anche nella vicenda dell’accusa sudafricana a Israele alla Corte di giustizia dell’Aia – per quanto subì questo antico popolo mesopotamico non ci sono controversie: lo fu. Particolarmente nel trattamento riservato alle donne, come già illustrato sulle colonne di questa testata da Simone Zoppellaro

Ma chi sono gli yazidi, e quali le peculiarità della loro identità? Quale la collocazione di un popolo tra i più perseguitati e tuttavia sconosciuti, assurto per breve tempo alle cronache internazionali per rientrare subito nel cono d’ombra che la storia sembra avergli da sempre riservato?

Ezidi o yazidi?
Meglio conosciuti come yazidi, questo antico popolo preferisce tuttavia la denominazione di ezidi. La prima designazione suscita infatti equivoci pericolosi associandoli a Yazid, figlio del califfo Mu’awiya, l’uccisore di Hussein nella battaglia di Karbala nell’ottobre 680 e guadagnando loro, così, l’ostilità dei musulmani sciiti. Preferiscono quindi chiamarsi ezidi, da Ezid, che è uno dei milleuno nomi prerogativa di Dio nella loro fede. Analoga ambiguità lessicale riguarda anche l’area del Sinjar, che è il nome arabo di quello che costituisce il luogo del loro più consistente insediamento ma che gli ezidi chiamano invece Shengal. 

Coordinate essenziali di un monoteismo che risale a oltre cinquemila anni fa, per molto tempo per convenzione rubricato dagli studiosi tra le fedi islamiche. Ma che da queste si differenzia in maniera sostanziale per un impianto dualista affine ad altri culti di area limitrofa persiana, come zoroastrismo e mandeismo, e un sincretismo…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.