L’ebraismo usurpato da Israele

Lo Stato di Israele, impegnato nella sua guerra punitiva contro i civili della Striscia di Gaza, ha finora ucciso più di 11.000 bambini. Un'operazione che inoltre non ha nulla a che fare con lo sradicamento di Hamas, che anzi ne esce rafforzata in seguito all'odio generato nei palestinesi dal governo di Netanyahu. Per compiere questo iniquo massacro, lo Stato di Israele pretende per giunta l'appoggio di tutti gli ebrei del mondo, che però glielo negano in quote sempre maggiori. Popolo della diaspora per eccellenza, quello ebraico ha potuto sopravvivere in Stati che rispettavano i diritti delle minoranze e quindi non può riconoscersi nella macchina di sterminio costituita dall'attuale Stato israeliano.

Homo sum; humani nil a me alienum puto

Confondendo Terenzio e il Talmud, mio padre rivendicava per l’ebraismo l’idea che nessuna sofferenza umana potesse essere estranea a un ebreo. Israele ha ucciso più di 11.000 bambini a Gaza e io ho visto attraverso il mio schermo, giorno dopo giorno, l’inferno che si nasconde dietro i numeri senza volto di questa atrocità. Non dovrebbe essere necessaria alcuna particolare decenza o rettitudine morale per vedere l’agonia dei padri che trasportano pezzi dei corpi dei loro figli agli obitori, delle madri che portano in braccio i bambini morti per le strade di Gaza, del bambino che si risveglia nel silenzio abissale lasciato dalla sua famiglia sterminata nella campagna di giusta malvagità di Israele, il nonno che scava alla ricerca dei corpi dei suoi nipoti. La semplice vista della più brutale delle sofferenze umane dovrebbe essere sufficiente a suscitare il più profondo degli orrori. Si dovrebbe presumere che coloro che non si commuovono non si siano accorti dell’orrore o lo trovino tollerabile.

Dimorando nell’oscurità di questa ferocia ostinata a cui può essere riservata solo la parola male, si possono trovare nomi, volti e voci come la supplica di Hind Rajab di sei anni, simile a quella in cui si prodigano spesso i miei bambini quando sono al buio per essere salvati dai mostri ed essere tenuti in braccio. Il suo appello mi perseguita e so che si moltiplica ogni ora di ogni giorno mentre il massacro di Gaza non mostra segni di cedimento né sotto i rimorsi di coscienza né sotto la pressione della prudenza politica.

Il numero non deve essere oggetto di disputa. La mostruosa cifra è rilevante solo per comprendere la portata della brutalità di Israele e anche un solo bambino avrebbe dovuto essere sufficiente per suscitare orrore. 10.000, infatti, è una grandezza che rischia di diventare una peculiarità statistica per il calcolo dei danni che la violenza di Stato può infliggere a una popolazione civile. Difficilmente si può scorgere una voce umana nel profondo di un simile numero. Io, tuttavia, che conosco ancora gli ultimi gesti di Mohammad al Dourra, posso ancora sentire la supplica di Hind che mi chiede, come spesso fanno i miei figli con toni simili, di spezzare la presa della paura con il caldo abbraccio di queste braccia.

In effetti, non posso evitare la sensazione che Hind si stesse rivolgendo direttamente a me e non riesco a capire nel modo più assoluto coloro che sono cresciuti con me nella comunità ebraica e che, ascoltando una simile supplic…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.