Joe Biden nel vicolo cieco di Gaza

La guerra di Netanyahu a Gaza rappresenta una delle principali sfide di Biden, assieme elettorale e diplomatica. Se il presidente Usa non riesce a venirne a capo con una soluzione che rispetti i diritti dei palestinesi rischia di perdere il sostegno da un lato di una grossa fetta di elettorato dem, a partire da giovani e minoranze, e dall’altro degli alleati arabi in Medio Oriente.

Se c’è una questione sulla quale la presidenza di Joe Biden negli Stati Uniti si è cacciata in un vicolo cieco dal quale è difficile uscire, questa è la guerra che ha devastato Gaza a partire dai giorni immediatamente successivi alla strage del 7 ottobre dello scorso anno. La solidarietà immediata a Israele e l’avallo delle operazioni militari come si trattasse dell’unica risposta possibile sono state la prima reazione venuta da Washington all’assalto di Hamas nel Sud di Israele. Una scelta comprensibile, di quelle che si fanno con il pilota automatico (la politica tradizionale USA in Medio Oriente) e dettata anche dallo sdegno per quel massacro. Il problema per Biden è che nel suo partito e tra i suoi elettori in molti ritengono che le scelte del governo Netanyahu, un avversario de facto dei democratici e in particolare di Obama, siano inaccettabili.

A partire dalla guerra in Iraq, è già successo che tra partito istituzionale e una parte della base più militante ci siano stati strappi e forti disaccordi. Stavolta è ancora diverso: la divisione è tra la visione, figlia del XX secolo, degli internazionalisti liberali, per i quali il sostegno all’“unica democrazia del Medio Oriente” rimane un totem, e la sinistra del partito che nelle frange più radicali guarda a Israele come a uno Paese dove è in vigore una forma di apartheid e che a tratti giustifica la resistenza violenta palestinese. E qui è c’è un ulteriore problema: una sinistra che usa toni talvolta ambigui fornisce elementi da usare a quei media e a quei politici che non vogliono un cambio di rotta. Un fenomeno che conosciamo bene anche in Italia: se uno brucia una bandiera di Israele o grida qualcosa di inaccettabile sono “i pacifisti”, “gli studenti”, “i manifestanti” a diventare in blocco antisemiti.

L’arroganza del governo Netanyahu, la minaccia dell’offensiva su Rafah (o l’offensiva stessa, che al momento in cui scriviamo non c’è ancora), la paura di perdere qualsiasi influenza nella regione, hanno con il tempo spinto l’amministrazione a cambiare toni e modi.

A differenza che per le politiche sull’aborto, le infrastrutture o il debito studentesco e similarmente alle scelte (e alla retorica) sull’Ucraina, in politica estera Biden si è rivelato un uomo della sua generazione e ha reagito per mesi con schemi che probabilmente non funzionano più nemmeno per il pubblico americano in generale. Almeno questo è quel che ci raccontano molti sondaggi pre e post 7 ottobre che aiutano a spiegare il parziale cambio di linea avvenuto dopo

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.