“Quella in cui viviamo è ancora una società “del
Lavoro”. Certo non ha più la maiuscola. Che però
non le veniva dal lavoro ma dall’ideologia. [… ]
L’ideologia borghese dell’operosità e l’ideologia
operaia del riscatto”1
Aris Accornero
“Il lavoro inteso come attività professionale
non è più la fonte del reddito, dell’identità
sociale e dello sviluppo economico, bensì è
uno strumento di controllo sociale”2
Ralf Dahrendorf
Il lavoro come fondamento e antemurale
«L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Questa la voce d’avvio della nostra Carta costituzionale; il cui assunto riguardo a quale sia il fondamento dell’ordine democratico segnala come – in quel fertile e venerando 1948 – i padri e le madri costituenti fossero perfettamente sintonizzati con il clima politico-culturale imperante nell’Occidente appena uscito dal secondo conflitto mondiale, con la vittoria (supposta definitiva) delle democrazie sul nazifascismo.
Infatti, stava producendo i suoi effetti di indirizzo internazionale un documento governativo britannico pubblicato nel novembre del 1942 e redatto sotto la direzione dell’economista liberale William Beveridge. Il celebre “Rapporto” che ebbe un’influenza decisiva nel determinare l’istituzione dello Stato sociale (Welfare State) nel Regno Unito attraverso l’espansione della National Insurance e la creazione del National Health. Un modello per tutte le politiche sociali europee, il cui prologo in qualche modo era stato il New Deal americano, che sotto la guida del presidente progressista Franklin Delano Roosevelt aveva consentito agli States di uscire dalla drammatica crisi del 1929, grazie all’inclusione democratica e a programmi pubblici di investimenti, finalizzati all’estensione del benessere a strati crescenti della popolazione.
Dunque, New Deal e Welfare State risultano due straordinari progetti strategici, con lo stesso riferimento concettuale: la grande lezione dell’intellettuale novecentesco probabilmente di maggiore spicco – John Maynard Keynes – tradotta nel paradigma che porta il suo nome: il compromesso keynesiano, ossia l’accordo sotto forma di scambio tra borghesia imprenditoriale e lavoro organizzato, in cui la prima si impegnava a perseguire la piena occupazione tendenziale, e l’altro dichiarava di accettare l’ordine capitalistico pacificato dalla regolazione. Compito dell’intervento pubblico, in questo quadro, sarebbe stato svolgere una funzione anticiclica nelle ricorrenti crisi economiche. Il quadro di riferimento che assicurerà per il periodo chiamato dai francesi i Trenta gloriosi e da Eric Hobsbawm l’Età dell’oro (1945-1973) la massima crescita del benessere condiviso che l’umanità abbia mai conosciuto. Un contesto in cui il lavoro assume la dimensione di soggetto costituente. Non solo fondamento della democrazia, come esplicitato nella nostra Carta suprema, ma anche antemurale a protezione di tale assetto, quale contrappeso che blocca nel campo degli interessi contrapposti qualsivoglia involuzione antidemocratica. Dunque – nel caso italiano – il primo e il massimo difensore della Costituzione. Che a posteriori potremmo definire intrisa di valori keynesiani come “spirito del tempo”, nel momento storico in cui veniva stilata. Sicché proprio nel tracciato di democrazia economica – o «sostanziale» (per usare la terminologia di Costantino Mortati, eminente giurista della Costituente) – affermato dall’Assemblea in sede redigente, emerge il punto di vista sintonico con l’autore della Teoria generale: la democrazia sostanziale fondata sul lavoro dall’articolo 1 pone il problema prioritario di come raggiungere effettivamente la piena occupazione; obiettivo ribadito e precisato dall’articolo 4 (diritto al lavoro), poi dall’articolo 3, comma 2. Quanto ora precisa il giurista Luciano Barra Caracciolo, «la piena occupazione è un obiettivo della Repubblica rispetto ai suoi cittadini, anzi diviene un connotato personalistico che riscrive, rispetto al passato, lo stesso contenuto della cittadinanza (facendola uscire dalla facciata ipocrita della mera eguaglianza formale, che è intrisa dal predicato di apparente parità del lavoratore all’interno della visione pan-contrattualistica liberale)»3.
Liberazione del o dal lavoro?
Il lavoro, eletto dalla nostra Carta fondamentale a soggetto riequilibratore della disuguaglianza e del comando plutocratico, giunge a questa storica valorizzazione dopo aver percorso un cammino millenario.
Considerato macula servile nelle società indoeuropee dell’evo antico (in base alla tripartizione di quelle società – descritta da Georges Dumézil – in bellatores, oratores, laboratores, ossia guerrieri, preti e allevatori-agricoltori4, il lavoro subiva il discredito come ordine inferiore, conseguente al comune giudizio di indegnità della classe preposta a praticarlo), la manualità ottiene una riabilitazione dall’avvento del primo cristianesimo; la cui predicazione si rivolge inizialmente agli ultimi e agli umili. Evoluzione cui ha dedicato pagine import…