Cancellare Shakespeare? Riflessioni sul futuro della lettura

Negli Stati Uniti alcuni insegnanti si oppongono all’insegnamento di Shakespeare nel timore che gli studenti possano essere feriti dalla violenza, dalla misoginia e dal razzismo presenti nelle sue opere. Ma l’abilità verbale e la conoscenza del mondo che ricaviamo dalla lettura del Bardo sono impareggiabili. Davvero vorremmo vivere senza?

Qualche mese fa, Meghan Cox Gurdon, critica letteraria di libri per bambini del Wall Street Journal, denunciava in un articolo i rischi del movimento statunitense #DisruptTexts che, «usando una buona idea, vale a dire che i bambini dovrebbero avere accesso a libri con protagonisti di razze ed etnie diverse, ne promuove una perniciosa e cioè che ai bambini nuoccia il confronto con una letteratura classica che non si conforma alla sensibilità contemporanea su razza, genere e sessualità», e lanciava un grido d’allarme per il fatto che alcuni insegnanti negli Usa si oppongono all’insegnamento di Shakespeare nel timore che gli studenti possano essere feriti dalla violenza, dalla misoginia e dal razzismo delle sue commedie.

A partire da quell’articolo la rivista Salmagundi, del Skidmore College, ha aperto un simposio sul tema cui hanno contribuito, con interventi di segno diverso che rendono la complessità della questione, il professore di Inglese alla University of Virginia Mark Edmundson; la scrittrice Siri Hustvedt; il direttore di Salmagundi e docente di Inglese presso il Skidmore College Robert Boyers; e Rochelle Gurstein, autrice di The Repeal of Reticence. A History of America’s Cultural and Legal Struggles over Free Speech, Obscenity, Sexual Liberation, and Modern Art.

Nelle prossime settimane pubblicheremo su MM+ tutti e quattro gli interventi, in una nostra traduzione dall’inglese, a partire da quello qui di seguito di Mark Edmundson.

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Cinque anni fa, un’insegnante di inglese di una scuola superiore della California ha scritto un post sul proprio blog ripreso dal Washington Post nel quale faceva mostra di avercela con Shakespeare. Gli studenti non lo capivano, non lo apprezzavano e lei non vedeva alcun motivo per perpetuare le loro sofferenze. In effetti, neanche a lei importava molto di lui. «Sono un’insegnante di inglese di scuola superiore. Non dovrei provare antipatia per Shakespeare, eppure è così. E non solo non mi piace a causa del mio personale disinteresse per storie scritte in una forma della lingua inglese che non sempre riesco a navigare, ma anche perché c’è un MONDO letterario davvero emozionante là fuori che risponde meglio ai bisogni dei miei studenti moderni etnicamente diversi e meravigliosamente curiosi» (Washington Post, 13 giugno 2015). Quindi, fuori dalla finestra il Bardo.

Mi piace quando le persone sono oneste, quasi qualsiasi cosa dicano. L’insegnante di inglese in questione ha dimostrato un’ammirevole indipendenza e ciò è sempre positivo in questi nostri tempi tremebondi. Temo però che probabilmente farà a modo suo e che Shakespeare comincerà a scomparire dai curricula delle scuole superiori e forse anche dei college. Un recente articolo sul Wall Street Journal afferma che «è in corso uno sforzo costante per negare ai bambini l’accesso alla letteratura. Con lo slogan #Disrupt Texts, ideologi della critical theory, insegnanti di scuola e agitatori di Twitter stanno epurando e facendo propaganda contro i testi classici, da Omero a Scott Fitzgerald al Dr. Seuss» (WSJ, 27 dicembre 2020). Shakespeare, apprendiamo dall’articolo, sarebbe anch’egli colpevole e probabilmente dovrebbe essere epurato a sua volta.

Presto, potrebbe es…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.